curvadong Inviato: 7 Gennaio 2007 Segnala Share Inviato: 7 Gennaio 2007 Spettacolare articolo di Ricolfi dalle pagine de LaStampa, nel quale si spiega ancora una volta come il fatto di adottare il solo termine di paragone Berlusconi e il suo quinquennio di governo (distorcendolo), per adeguare le politiche sociali ed economiche non possa, per definizione, portare a nessun tipo di azione riformista, quella stessa decantata come imprescindibile ovunque a sinistra salvo che nell'area massimalista. insomma mirare a vivacchiare di rendita sulla mistificazione negativa di un passato recente, già cmq oggettivamente esecrabile (Ricolfi da uomo di sx lo ha fatto dalle stesse pagine più volte), lungi dall'essere il tratto peculiare di una politica illuminata è proprio il modo migliore per non attuarne nessuna di quelle ritenute improcrastinabili da qualunque osservatore internazionale e non. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubr...e=&sezione= 7/1/2007 Riformisti e complesso di Atlante LUCA RICOLFI Non vedo ragioni per cui Rossi debba lasciare il nostro partito». Così parlò Fassino all’indomani della decisione di Nicola Rossi, esponente dell’area liberal dei Ds, di abbandonare i Ds stessi, ossia il partito di cui Fassino è segretario. Strano. In molti, invece, compresi diversi politici riformisti, l’abbiamo trovata una decisione comprensibilissima, e semmai ci siamo chiesti come mai Rossi fosse ancora lì. Quel che sta succedendo, infatti, era piuttosto prevedibile. Il governo Prodi sta dando esattamente quello che - date le forze politiche e sociali che lo sostengono e data la (voluta) vaghezza del programma elettorale - noi elettori potevamo aspettarci che desse: molta corda a sindacati e Confindustria, un po’ di soldi (detti «risorse») ad alcuni segmenti sociali protetti, qualche timido segnale sulle liberalizzazioni, nessuna riforma coraggiosa dell’economia e dello Stato sociale. A differenza di Rossi e degli altri liberal di sinistra, non nutro particolari aspettative dai riformisti dell’Unione, e semmai mi stupisco che (per ora) solo Rossi abbia preso atto della realtà. Quanto a Fassino e agli altri dirigenti che più o meno amichevolmente strigliano i Rossi, i Giavazzi, gli Ichino, e ricordano loro che la politica è l’arte del possibile, che non si fanno le riforme dall’alto, o dalle colonne dei giornali, o dalle cattedre dell’università, dal loro angolo visuale hanno anch’essi le loro ragioni. Siamo o non siamo al governo con Bertinotti e Diliberto? E allora che cosa pretendiamo? Certo, possiamo tentare di introdurre «elementi di riformismo» nella politica del governo, ma adagio, con prudenza, discutendo e concertando, senza forzare i tempi, senza velleitarie fughe in avanti. Insomma: cari «riformisti della cattedra», frenate i vostri ardori, calmate i vostri bollenti spiriti, abbandonate la vostra giovanile (si fa per dire) impazienza, e lasciate che la politica faccia la sua parte . Dunque Fassino e gli altri hanno ragione, dal loro punto di vista. È il punto di vista, però, che è sbagliato. E questo, ahimè, lo si poteva vedere a occhio nudo da anni. Dove sta l’errore nel punto di vista dei dirigenti politici? Sta nell’analisi della società italiana e del quinquennio berlusconiano. È quell’analisi sbagliata - sbagliata perché cieca e cieca perché faziosa (!!!) - che paralizza l’azione politica dei politici riformisti e li rende più prudenti, molto più prudenti, di quanto sarebbe necessario. Tutta la dirigenza dell’Unione, non solo quella massimalista che ora viene accusata di impedire le riforme, ha passato cinque anni a dire che il centro-destra aveva instaurato un regime, sfasciato i conti pubblici, varato disastrose riforme economico-sociali (mercato del lavoro e pensioni), bloccato lo sviluppo, impoverito gli italiani, creato enormi diseguaglianze, tolto a un’intera generazione la speranza del futuro. Essendo questa l’analisi condivisa da quasi tutti i dirigenti dell’Unione, riformisti e non, ha perfettamente ragione la sinistra estrema a essere radcon, ossia radicalmente conservatrice. Se si accetta quell’analisi apocalittica del quinquennio berlusconiano, il primo compito della politica non è fare nuove riforme, incisive e lungimiranti, ma sopprimere le contro-riforme di Berlusconi: non già andare avanti, ma tornare indietro per conservare quel che di buono c’era prima. Il bello di questa analisi è che spiega e giustifica anche la prudenza dei Fassino e dei Rutelli: se il quinquennio berlusconiano è stato solo questo, se non c’è nulla - ma proprio nulla - da salvare di quell’esperienza, allora è chiaro che con l’opposizione non può esserci alcun dialogo, e la priorità delle priorità diventa la sopravvivenza del nuovo governo, a qualsiasi costo, ossia qualunque cosa faccia o non faccia. Se cade il governo ritorna il Berlusca, e ripiombiamo nella tragedia del 2001-2006. E se questo è il rischio, allora meglio tenerci il più a lungo possibile l’allegra commedia del governo Prodi. È questo non detto, questo implicito «dopo di noi, il diluvio!», l’origine più vera (e più nobile) della debolezza politica dei riformisti. Se Fassino e Rutelli sono così timidi, e Prodi è così attento a non scontentare sindacati e sinistra radcon, non è solo perché ogni governo bada innanzitutto a sopravvivere, ma perché questo governo crede davvero di aver salvato l’Italia da un’immane sciagura («Ti rendi conto, Piero, che abbiamo salvato l’Italia?», pare abbia esclamato Prodi rivolto a Fassino nella notte del 10 aprile, appena avuta la certezza di aver vinto le elezioni). E in un governo che si autopercepisce come «di salvezza», è naturale che siano le forze politiche più grandi e responsabili a farsi carico dell’unità della coalizione, rinunciando a imporre le proprie priorità e subendo i ricatti delle forze minori. Ora, con le dimissioni di Rossi, questo gioco diventa solo più chiaro. Ma era già riconoscibile un paio di mesi fa, quando proprio la dirigenza riformista dell’Unione impose la chiusura del «tavolo dei volenterosi», ossia del luogo politico più coerentemente e fattivamente riformista. La chiusura di quel tavolo, in cui si discutevano idee e proposte che i maggiori dirigenti riformisti dell’Unione in gran parte condividevano, aveva una sola ratio: bloccare sul nascere qualsiasi iniziativa che «oggettivamente», ossia indipendentemente dai suoi contenuti, potesse essere usata per indebolire il governo. Oggi si riparla di riaprire quel tavolo, e i «volenterosi» progettano di ritrovarsi a Milano il 29 gennaio per rilanciare l’agenda delle riforme. Personalmente auguro loro ogni successo, ma temo che quell’agenda, almeno a sinistra, sia destinata a rimanere sospesa nel vuoto. Cesserà di esserlo solo quando la dirigenza riformista dell’Unione si convincerà che, per il bene dell’Italia, la vera alternativa da evitare non è il ritorno del centro-destra, ma la paralisi delle riforme. Per avviare davvero una stagione di cambiamenti, i riformisti dovrebbero prima di tutto riconoscere quel che (più o meno bene) già è stato fatto e soprattutto accettare anch’essi il rischio di una caduta del governo, proprio come fa la sinistra radcon ogni volta che detta le sue condizioni. Finché questo non avverrà è logico che le persone come Rossi, pur dicendo e pensando cose che tutti i sinceri riformisti in cuor loro condividono, siano considerate soprattutto un ostacolo, un ingombro, un fastidio, quando non addirittura un pericolo, rispetto alla missione fondamentale che unisce massimalisti e riformisti: tenere in vita il governo per scongiurare il ritorno dei «cattivi». Quanto tempo ci vorrà, ai riformisti, per liberarsi da questa sorta di complesso di Atlante, che li porta a reggere intero il peso dell’unità della maggioranza? Difficile dirlo, ma nel frattempo - cari riformisti - lasciatevi almeno fare una domanda: anche ammesso che, per l’Italia, il ritorno del centro-destra possa (in futuro) produrre un danno maggiore di quello che la vostra lentezza provoca già oggi, non pensate che - alla fine della fiera - sarete proprio voi, con la vostra infinita prudenza, a restituire l’Italia ai «cattivi»? Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
billo Inviato: 7 Gennaio 2007 Segnala Share Inviato: 7 Gennaio 2007 Sembra che Nicola Rossi abbia lasciato perchè deluso dalla mancanza di vlontà di riformare,da parte del suo governo.L area estremista va tenuta buona per evitare ripercussioni dure, capaci di riportare a galla Berlusconi.Chiaro è l intento di temporeggiare ,l importante è restare saldi alla poltrona.Credo che questo sia il limite ,il peccato di fondo dei nostri politici,POLITICI DI PROFESSIONE :dorme: Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
curvadong Inviato: 8 Gennaio 2007 Autore Segnala Share Inviato: 8 Gennaio 2007 questo di Rossi a mio avviso vale l'acquisto annuale del quotidiano: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politic.../08/rossi.shtml «Il partito democratico? Nasce sulla sabbia «Cari leader non siete più credibili» Dibattito sul riformismo, nuovo contributo dell'economista che ha lasciato polemicamente i Ds Conviene partire dalla sera dell'ultimo dell' anno. Conviene partire dalle parole del Capo dello Stato sulla distanza fra la politica e la società e dal suo invito agli italiani a colmare quella distanza, a tornare a guardare alla politica non più come altro da sé. E dal corrispondente invito alla politica a dare di sé un'immagine tale da giustificare una ritrovata fiducia da parte dei cittadini. Parole sante, come si dice. Ma, sia detto con il massimo rispetto per chi le ha pronunciate, forse anche parziali. Perché il punto non è tanto - a mio modestissimo parere - quello del rumore della politica (che, sia chiaro, c'è ed è spesso molto sgradevole) ma quello, assai più serio, della qualità della politica che quel rumore sottende. Una qualità che porta oggi gli italiani non già all'irritazione e all'invettiva ma all'indifferenza. A considerare la politica come un peso di cui non è possibile liberarsi ma che, appunto, è solo un peso. Fastidioso e spesso ingiustificato. Maprima di affrontare quel punto, una premessa è essenziale, a scanso di equivoci. Chi scrive pensa non solo, come si dice con una punta di retorica, che i partiti sono uno strumento essenziale della democrazia, ma che la politica si fa, in primis, dentro e con i partiti. Comprendendone il ruolo, interpretandone i rituali, rispettandone le forme, ricordandone la storia, percorrendone tutte le articolazioni. Tutte attività non sempre gratificanti e a volte anche un pochino noiose ma senza le quali non si comprende, al tempo stesso, la durezza e la ricchezza della politica. E chi scrive ne è tanto convinto che nel 2001 - memore della indicazione di Mitterrand ad un noto intellettuale francese del suo tempo - non ha chiesto di essere candidato a Siena o a Modena (nessuno si offenda, per favore, ho fatto solo due esempi) ma in un collegio meridionale saldamente tenuto da parecchi anni dagli avversari. Ciò detto, torniamo alla qualità della politica. Allentatosi il vincolo della ideologia, la politica è oggi più di tante altre cose, credibilità. Credibilità della classe politica nel suo insieme e credibilità dei singoli che fanno politica. E una politica credibile è quella che crede in quello che dice ed in quello che fa, o che cerca di fare. E' tutto qui il dibattito sul riformismo che andiamo facendo da qualche tempo o, meglio, da qualche anno. Non riguarda solo i risultati - che pure sono piuttosto magri - ma la convinzione che dovrebbe animare i protagonisti di quel dibattito. Cosa pensereste di un grande manager che oggi indica nel mercato cinese una opportunità da non mancare e promette, di lì a qualche tempo, di sbarcarci in forze e poi, qualche tempo dopo, vi dice che sì, poi, in fondo, il mercato cinese non è così importante? E cosa pensereste di un leader politico che a novembre annuncia urbi et orbi che per marzo il paese avrà messo un punto fermo sui temi della riforma previdenziale e poi a gennaio conclude che, in La citazione fondo, la cosa non è poi così urgente? Non pensereste quello che pensano molti italiani? E, gentilmente, non si tiri fuori l'argomento francamente un po' deboluccio relativo alle difficoltà entro le quali quotidianamente si muove la politica. Alla fatica - che c'è, lo sappiamo - della costruzione politica. Alla incertezza degli esiti: sappiamo anche questo, si può vincere e si può perdere. Il punto è un altro: da una classe politica si chiede - avrei voluto scrivere, si pretende - che spenda il proprio tempo a pensare come evitare o superare quelle difficoltà. La politica - mi si perdoni la franchezza - non è pagata per raccontare ai cittadini gli ostacoli che incontra giorno dopo giorno ma per superarli. Se ne è capace. E se non ne è, per lasciare ad altri la possibilità di provarci. Le difficoltà in cui si dibatte, giorno dopo giorno, l'odierna azione di governo sono il frutto malato di cinque anni di opposizione in cui - anche grazie a qualche editoriale domenicale non sempre illuminato - non un solo giorno è stato speso per costruire la cultura e le condizioni che sarebbero servite a governare e non è lecito, oggi, usare quelle difficoltà come un'attenuante. (E l'argomento vale, mutatis mutandis, per il governo della passata legislatura.) Si è seminato male e quindi si raccoglie poco. E si è seminato male perché non si credeva fino in fondo in quel che si diceva di voler fare. Una politica credibile è una politica che rischia e che si assume responsabilità. Che si espone al pericolo di perdere perché solo così si vince. Che non trasforma un grande progetto politico come quello del Partito democratico - evidentemente difficile e rischioso - in un piccolo espediente tattico. Per quel pochissimo che capisco di politica mi sembra di poter sommessamente dire che non si costruisce un partito con un solo punto nell'agenda: consolidare gli equilibri esistenti. Politici e di potere (benedetti intellettuali! continuo a non riuscire a non tenere separate le due cose). Vedere per credere come, a livello locale, si vanno preparando i prossimi congressi. In molte regioni d'Italia (almeno una la conosco piuttosto bene) l'attività politica oggi prevalente è quella relativa alla attenta allocazione delle tessere ed al relativo "traffico". Perché il congresso non comporti il minimo rischio. Perché tutto sia noto e definito in anticipo. Perché le minoranze non manchino e le maggioranze siano definite per residuo. Nulla di nuovo e tanto meno di sorprendente. Lo si faceva anche negli anni d'oro della Prima Repubblica. Per quel che ricordo, spesso con più stile e certamente con più fantasia. Il punto grave è che tutto questo accade non già in vista di congressi di routine ma addirittura nella prospettiva di scelte che dovrebbero cambiare il modo stesso di essere della politica italiana. Che dovrebbero chiudere una transizione (che, ovviamente, non a caso è infinita). Come si può - lo chiedo a Michele Salvati - contemplare senza battere ciglio una abdicazione della politica di questa portata? Come si può, con il sorriso sulle labbra, esporre il sistema politico italiano - prima ancora che alcune sue parti - a pericoli fin troppo evidenti, perché partiti così sono costruiti sulla sabbia e possono scomparire al primo risultato elettorale non troppo esaltante, lasciando dietro di sé - e nel migliore dei casi - solo macerie? Come si può non vedere che l'Italia cresciuta, economicamente e socialmente, nell' ultimo quindicennio di un partito costruito su basi culturali e politiche così fragili non saprebbe che farsene e cercherebbe altrove le risposte alle proprie domande? Se il Partito democratico fallirà - mi rivolgo ancora a Michele Salvati - non sarà a ragione di subdole ed infide iniziative trasversali (e, sia detto per inciso, è più subdolo ed infido discutere con Bruno Tabacci di pensioni o trattare sulla legge elettorale con Roberto Calderoli?), ma sarà a causa della mancanza di coraggio di chi pensa che il rischio sia pane quotidiano per le famiglie e per le imprese ma non per la politica. Una politica credibile è una politica che rispetta le regole. Che non si limita, giustamente, a chiedere giornalmente ai cittadini di rispettare le regole ma che rispetta essa per prima le regole che alla politica si applicano. E ce n'è una, in molti paesi e soprattutto in quelli che il maggioritario ce lo hanno da tempo, che non è nemmeno scritta: chi perde abbandona il campo. Definitivamente (salvo straordinarie eccezioni). Sia che perda elettoralmente, sia che perda politicamente (chiedere, per ulteriori dettagli, a Margaret Thatcher). (!!!! n.d.r.) E non è una astruseria. Ma una semplice - rozza, lo ammetto - norma di garanzia. Intesa ad evitare che chi c'è usi del proprio indubbio potere per rimanere. E, gentilmente, si eviti a questo punto di alzare il dito per osservare che nuove classi politiche all'orizzonte non si vedono. Perché non sappiamo se l'impresa entrante ci offrirà prodotti di qualità migliore e a un prezzo inferiore, ma consideriamo un bene pubblico il fatto che possa provarci e lo tuteliamo come tale. La politica italiana - credo di averlo detto e scritto in tempi non sospetti - è oggi guidata (al di là dei meriti o dei demeriti dei singoli) da due leadership entrambe sconfitte. E quindi automaticamente, inevitabilmente, al di là della loro volontà e delle loro capacità, non più credibili. Della politica non possiamo fare a meno. Quindi, quel che fa la differenza è la qualità della politica. Si può fare politica per una vita intera senza mai farla veramente e farla per un giorno solo mettendoci la passione di una intera vita. Nicola Rossi 08 gennaio 2007 Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
Gurg Inviato: 8 Gennaio 2007 Segnala Share Inviato: 8 Gennaio 2007 (modificato) non ti piace il corrierone? anzi, apsetta che apro una discussione a proposito della stampa Modificato 8 Gennaio 2007 da Gurg Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
curvadong Inviato: 8 Gennaio 2007 Autore Segnala Share Inviato: 8 Gennaio 2007 Mi piace, è il miglior quotidiano d'Italia, seppur con molti distinguo, l' espressione intendeva far risaltare in un contesto già buono il valore di questo splendido articolo. Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
Gurg Inviato: 8 Gennaio 2007 Segnala Share Inviato: 8 Gennaio 2007 (modificato) Mi piace, è il miglior quotidiano d'Italia, seppur con molti distinguo, l' espressione intendeva far risaltare in un contesto già buono il valore di questo splendido articolo. concordo, anzi, lo sto proprio scrivendo nella nuova discussione, aspetto un parere di la'! Modificato 8 Gennaio 2007 da Gurg Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
curvadong Inviato: 10 Gennaio 2007 Autore Segnala Share Inviato: 10 Gennaio 2007 Altro articolo per capire come le difficoltà attuali della coalizione di sx di 'riformare' il paese siano endogene, costituzionali e quindi le stesse di dieci anni fa. http://www.radicali.it/view.php?id=81395 Sinistra divisa sulle riforme (come 10 anni fa) • da Il Sole 24 Ore del 9 gennaio 2007, pag. 10 di Guido Gentili Sinistra (al governo) e riforme: oggi come dieci anni fa? La domanda è legittima, perché molti dei protagonisti di allora sono gli stessi che calcano la scena del 2007. E, soprattutto, identico sembra essere lo schema politico che da allora si dipana tra qualche strappo e molti colpi di freno. Era il 1997. Prodi è al timone del Governo, ed è incalzato dal leader del Pds D'Alema, che il 5 febbraio è eletto presidente della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. D'Alema punta a un Paese "normale" e vuole le riforme. Al congresso dell'Eur del Pds, a inizio d'anno, entra in rotta di collisione con la Cgil di Cofferati e con la sinistra massimalista, guidata da Bertinotti. Scrive D'Alema nel suo libro La grande occasione (agosto 1997): «Blair mi ha detto: voi dovete fare anche quello che in altri Paesi ha fatto la destra. È vero, risanamento finanziario e riforma dello Stato sociale sono obiettivi che altrove hanno realizzato i conservatori. In Italia è toccato a noi, perché noi siamo l'unica, effettiva classe dirigente di questo Paese». D'Alema vuole "aprire" il mercato del lavoro, la flessibilità non è un tabù. «Dobbiamo stare — dice — dalla parte di chi vuole entrare, non da quella di chi vuole tenere la porta chiusa». Gli fa eco il giuslavorista ed ex deputato comunista Pietro Ichino, che batte sul tema dell'"inamovibilità" e affronta la questione dei licenziamenti, sulla quale lavorano, in Parlamento, Salvati e Debenedetti. Mentre Nicola Rossi sottolinea la necessità di riformare lo Stato sociale. A giugno '97 anche il segretario della Cgil Cofferati pubblica un suo libro, A ciascuno il suo mestiere. Tagliente il giudizio su come il Governo Prodi affronta la riforma della previdenza, Il Governo, dice, «ha affastellato un rosario di dichiarazioni contraddittorie: la riforma "dovrebbe essere rivista prima della sua scadenza naturale", però si tratterebbe di una "semplice discussione" e non di una modifica, anche "se non si può escludere di doverla modificare" se fosse necessario. Con l'unico risultato di amplificare l'incertezza e fornendo a Rifondazione comunista continui pretesti per esercitare i suoi veti e ampliare la sua rendita di posizione». Dieci anni fa, ma sembra oggi. Con Fassino negli stessi panni che vestiva D'Alema a chiedere lasvolta riformista, (e con i "volenterosi" di ieri e di oggi a insistere sempre sugli stessi punti) e Prodi che risponde «sì, ma in cinque anni». In mezzo, dopo la caduta del Prodi I, del Governo D'Alema e di quello di Amato, cinque anni di Governo Berlusconi con la "legge Biagi" e la riforma delle pensioni. Già, perché la prima legislatura dell'Ulivo, se si esclude l'innovatore "pacchetto Treu" del '98 sulla flessibilità del lavoro, non affronta il capitolo delle riforme. È il partito dei veti a prevalere, e solo il Partito radicale, con il primo referendum del 2000 sull'articolo 18 prova a incrinare il blocco politico-sindacale che di fatto ha già sconfìtto i riformisti. Blocco che si raccoglie intorno a Rifondazione di Bertinotti, Verdi di Pecoraro Scanio e Fiom-Cgil e che anzi coglierà quest'occasione per raccogliere le firme per un referendumdi segno opposto che estenda le tutele dell'articolo 18 a tutti i lavoratori dipendenti. Sul conclave di Caserta il fallimento di dieci anni fa si stende come un'ombra minacciosa. Dalla sconfitta di D'Alema alle dimissioni di Rossi il filo è sempre lo stesso. Quello, strappato, delle riforme mancate. Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
curvadong Inviato: 11 Gennaio 2007 Autore Segnala Share Inviato: 11 Gennaio 2007 ancora sulla prospettiva necessaria ad una politica riformatrice http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubr...e=&sezione= Abbiamo salvato l’Italia? FRANCO DEBENEDETTI Con le sue «Osservazioni critiche» (Corriere della Sera, 8 gennaio), Nicola Rossi risponde agli interrogativi suscitati dalla sua decisione di uscire dai Ds: perché attacca Fassino se il suo bersaglio è il governo? Rimpiange la stagione del primo governo D’Alema o prefigura quella dei «volenterosi»? Non si rende conto che la prima vittima della sua uscita è il Partito Democratico? Rossi risponde alzando la posta, con un ragionamento che non si colloca sul piano dell’agenda politica, ma della visione politica; che non riguarda i rapporti di forza all’interno della coalizione, ma la credibilità della politica. La ratio della sua iniziativa ne esce precisata, ma resta la sensazione di una visione pessimistica al limite del disperato. Credo invece che sia possibile dare al suo discorso un obiettivo e una prospettiva, ardui ma praticabili. Servirà anche a far sì che l’iniziativa dei «volenterosi», prevista per il 29 gennaio a Milano, non sia soffocata sul nascere da sospetti di trasformismo o di accuse di tradimento. Parto da questo suo passaggio: «Le difficoltà in cui si dibatte l'odierna azione di governo sono il frutto malato di cinque anni di opposizione: si è seminato male perché non si credeva fino in fondo in quel che si diceva voler fare». Eravamo in molti, nei cinque anni di opposizione, a chiederci perché «non un solo giorno venisse speso per costruire la cultura che sarebbe servita per governare». Se governare ha il senso di attuare le riforme e non solo di scrivere una formula in un programma dove ognuno possa ritrovare quel che vuole, se governare significa dare agli elettori una prospettiva per non arroccarsi a difesa delle rendite, per non sprecare energie a difesa del poco che c’è, ma per investire e acquisire il di più che ci può essere, allora bastava saper fare una somma per capire che era necessario superare l’assetto politico formatosi nel 1994. Quando diventò evidente l’incapacità di Berlusconi di attuare le promesse fatte, non era difficile costruire una proposta politica - teorie, programmi, uomini - capace di attrarre gli elettori delusi di centrodestra. Non c’era neppure il problema di garantire quotidianamente i voti al governo, non c’era la costrizione a far convivere Mastella e Diliberto, Di Pietro e Pecoraro Scanio: poteva valere anche per noi il licet experiri. Non ne abbiamo approfittato: invece di vedere gli elettori, si son guardate le sigle dei partiti; alla convergenza possibile degli interessi si è voluto imporre la spaccatura politica e culturale creatasi 13 anni fa tra Polo della Libertà e Progressisti. «Per fare le riforme ci vuole il consenso», scrive Michele Salvati, e ricorda beffardamente Eugenio Scalfari. Proprio per questo ci si doveva liberare da quella gabbia ideologica. Anzi, a ben pensarci, lo si doveva fare proprio per ciò che distingue il riformista dall’«illuminista che vagheggia riforme imposte dall’alto». Il riformista crede che esista nel Paese consenso alle proprie proposte, crede che la strada per conquistarlo possa essere trovata. Ma è una pretesa assurda cercare di allargare l’area del consenso e allo stesso tempo pretendere di mantenere l'intero arsenale delle proprie pregiudiziali ideologiche; cercare il consenso e volere riconosciuta la propria (presunta, oh quanto presunta!) superiorità culturale e morale; far leva su interessi legittimi e considerare gli italiani peccatori, molti reali, tutti potenziali, contro il settimo comandamento. Il passato è passato. In fondo corrisponde a una giustizia del contrappasso che il centrosinistra debba scontare gli anni passati a chiedere centinaia di volte al giorno la verifica del numero legale, difendendo ora perinde ac cadaver una maggioranza sempre a rischio. Il problema non è questo: lo è invece il mantenere del tutto inalterata la prospettiva politica. Che Prodi, alla fine di quella nottata al cardiopalmo, abbia esultato «abbiamo salvato l’Italia!», si può capire. Ma a luglio, nel Dpef, non ha senso paragonare la situazione del 2007 a quella del 1992. Che Berlusconi abbia lasciato dietro di sé una doppia devastazione, morale nell’animo degli italiani ed economica nei conti dello Stato, è una tesi fattualmente falsa e politicamente disastrosa. Serve solo a perpetuare una contrapposizione totale con l’avversario, a presidiare con un riarmo morale una linea di confine. Chi scrive è (ancora) convinto che il bipolarismo dell’alternanza sia l'assetto istituzionale adatto a realizzare le riforme, e che le soluzioni centriste finirebbero per proteggere interessi corporativi. Non c’è mai stata ragione di essere antiberlusconiani militanti per essere bipolaristi: non ha senso alcuno esserlo oggi che Berlusconi come persona non ha un futuro politico. Non ha senso alcuno ripetere quello che Norberto Bobbio diceva nel ‘94, che la televisione è un universo naturaliter berlusconiano, oggi che siamo entrati nell’era dell’abbondanza dell’offerta e della concorrenza tra piattaforme. Non ha senso accusare ancora oggi (Claudio Rinaldi sull’Espresso) chi, come il sottoscritto, non ha votato contro la legge Berlusconi sul falso in bilancio per significare il proprio dissenso dall’uso che ne era stato fatto come spada di Damocle all’epoca di Tangentopoli. Non ha senso brandire ancora oggi il conflitto d’interessi e le leggi ad personam per demonizzare l’avversario invece che usarli per evidenziare gli ostacoli che essi disseminano sulla strada delle riforme. «La politica italiana - scrive Nicola Rossi - è oggi guidata da due leadership entrambe sconfitte». Il fatto, non si può che constatarlo. C’è invece una sconfitta di cui la sinistra non vuole prendere atto: quella dell’idea secondo cui la nostra è ancora una situazione anormale, che gli italiani hanno bisogno di un personale politico che gli impedisca di «viver come bruti», e di uno Stato ingombrante e pervasivo che impedisca loro di perdersi con i meccanismi incontrollati del mercato. Questa legislatura andrà avanti come è nata, riuscirà a superare anche la doppia trappola del referendum e della legge elettorale. Ma anche la competizione politica è una procedura per la scoperta, scoperta di strade che aggreghino il consenso alle riforme. E proprio per questo è da adesso, da subito, che si deve guardare agli assetti politici senza pregiudizi, con occhio disincantato e animo «volenteroso». Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
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