curvadong Inviato: 4 Luglio 2007 Segnala Share Inviato: 4 Luglio 2007 (modificato) http://www.lavoce.info/news/view.php?id=10...&from=index Un noto gruppo di indicatori pubblicati dalla Banca Mondiale irrobustisce l’ipotesi, molto suggestiva, secondo cui esisterebbe una correlazione tra il buon funzionamento di un’economia, da un lato, e dall’altro lato la qualità del discorso pubblico e la responsabilità e la trasparenza nel rapporto tra potere e cittadino. È giustificato dunque chiedersi se i giornali italiani non siano anch’essi concausa della difficile realtà sociale ed economica del paese e, in subordine, quale ruolo giochi l’informazione on line di qualità come lavoce.info. Modificato 4 Luglio 2007 da curvadong Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
curvadong Inviato: 4 Luglio 2007 Autore Segnala Share Inviato: 4 Luglio 2007 Bellissimo articolo per chi ne ha voglia:Gli europeri lavorano meno degli americani, una analisi. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubr...ione=Editoriali La scelta sugli strumenti politici è d'altronde oggetto di analisi teorica. Come è noto, la disputa sui modelli del lavoro in America e in Europa è tra chi ritiene, come Olivier Blanchard (Mit), che gli europei lavorino poco perché accettano di guadagnare meno pur di disporre di più tempo libero e chi invece, come Alberto Alesina (Harvard), ritiene che non si tratti di una scelta dovuta ai gusti individuali, bensì alle «istituzioni»: gli europei lavorano meno perché le tasse sul lavoro e sul reddito sono alte, le regolamentazioni del mercato del lavoro sono rigide e i sindacati li spingono a lavorare poco. I dati sui lavoratori autonomi dimostrano che gli europei «non dipendenti» lavorano più di quelli americani e che quindi non sono pigri per scelta. L'ignavia degli europei non risulta nemmeno se si tiene conto degli impegni di cui essi si fanno carico oltre il tradizionale luogo di lavoro. Ma evidentemente la presenza di forti istituzioni collettive, politiche, sindacali e sociali, finisce per condizionare le stesse scelte degli individui, tanto da rendere confuso il fatto che gli europei preferiscano davvero lavorare meno, o che invece siano costretti a farlo, o addirittura vogliano esservi costretti… Come si capisce le implicazioni politiche sono rilevanti. Se la minore crescita dell'economia europea rispetto a quella americana è dovuta in buona parte alla pigrizia artificiale in cui le istituzioni pubbliche costringono gli europei - più o meno volentieri -, allora bisogna chiedersi se il consenso su cui si basa il controllo delle istituzioni, del governo e del sindacato, sia «sostenibile» a lungo andare o se non diventi ragione di dissenso per esempio attraverso la discriminazione, come sostiene Guido Tabelloni (Bocconi), di chi ha già un lavoro rispetto a chi non ce l'ha, di chi ha rendite e di chi non ne ha. Secondo Steve Nickell (Lse) . La soluzione politica è dunque aperta, ma è difficile immaginare che l'obiettivo del consenso possa, tutt'al più, essere uno strumento, piuttosto che la finalità a cui rischierebbe di elevarlo una retorica un po' antica. Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
darko Inviato: 4 Luglio 2007 Segnala Share Inviato: 4 Luglio 2007 (modificato) Alberto Alesina (Harvard), ritiene che non si tratti di una scelta dovuta ai gusti individuali, bensì alle «istituzioni»: gli europei lavorano meno perché le tasse sul lavoro e sul reddito sono alte, le regolamentazioni del mercato del lavoro sono rigide e i sindacati li spingono a lavorare poco. I dati sui lavoratori autonomi dimostrano che gli europei «non dipendenti» lavorano più di quelli americani e che quindi non sono pigri per scelta. L'ignavia degli europei non risulta nemmeno se si tiene conto degli impegni di cui essi si fanno carico oltre il tradizionale luogo di lavoro. Ma evidentemente la presenza di forti istituzioni collettive, politiche, sindacali e sociali, finisce per condizionare le stesse scelte degli individui, tanto da rendere confuso il fatto che gli europei preferiscano davvero lavorare meno, o che invece siano costretti a farlo, o addirittura vogliano esservi costretti… dati interessanti che testimoniano quanto sopra.i numeri del sindacato Nel 1970, il 27,5 per cento dei lavoratori non agricoli era ancora iscritto a un sindacato. Nel 1983, due anni dopo l'avvento di Ronald Reagan alla presidenza e poco dopo l'inizio dell'attacco antioperaio, gli iscritti erano scesi al 20,1 per cento dei lavoratori salariati e stipendiati. Nel 1998 la percentuale era scesa ancora al 13,9 per cento (dal 14,1 del 1997); ma per la prima volta da molti anni lì si è fermata: e per mantenere la stessa percentuale, il numero degli iscritti nel 1999 è aumentato di 265.000 unità. Questo il dato più positivo.Negli anni passati il crollo più pesante lo hanno subìto i lavoratori del settore privato, dove gli iscritti sono solo il 9,5 per cento (anche in questo caso come nel '98). Il grosso dei lavoratori sindacalizzati (37,3 per cento) è costituito dai dipendenti pubblici, gli ultimi arrivati al sindacato e gli unici che non hanno subìto arretramenti in questi anni. Per quanto riguarda l'industria manifatturiera privata, una volta terreno di coltura della sindacalizzazione, gli iscritti erano pari al 15,8 per cento nel 1998, con un'ulteriore lieve flessione rispetto all'anno precedente (16,3 per cento). Tra gli iscritti, sulla base dei dati relativi al '98, gli uomini continuano a essere più sindacalizzati delle donne (16,2 per cento contro 11,4), e gli afroamericani (17,7 per cento) sono più numerosi dei bianchi (13,5) e degli ispanici (11,9). I maschi neri, in particolare, sono i più sindacalizzati, con una presenza tra gli iscritti pari al 20,7 per cento, mentre le donne bianche (10,8) e ispaniche (10,6) sono le meno presenti. Infine, come ci si aspetterebbe, i lavoratori a tempo pieno sono due volte e mezza più sindacalizzati dei lavoratori a tempo parziale e, nonostante le delusioni accumulate nel corso della loro vita lavorativa, i più sindacalizzati sono i lavoratori compresi tra i 35 e i 64 anni d'età, con le punte più alte al di sopra dei 44 anni. Questi dati essenziali, positivi per l'inversione di tendenza che registrano negli ultimi due anni, sintetizzano il processo storico del declino sindacale, avvenuto in conseguenza dell'interazione di tre cause principali, tra loro molto diverse: l'offensiva antioperaia e antisindacale da parte dello Stato e del grande capitale, il distacco dei vertici sindacali dalle loro basi, la terza rivoluzione industriale. Modificato 4 Luglio 2007 da darko Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
curvadong Inviato: 4 Luglio 2007 Autore Segnala Share Inviato: 4 Luglio 2007 Sì, la gènesi del declino sindacale negli USA offre un modello dinamico dei rapporti di forza tra categorie e istituzioni e spiega in ultima analisi il perchè dello stakanovismo americano sul lavoro rispetto alla media europea.Ora però vorei scorporare il dato italiano per vedere cosa viene fuori come media, perchè appare ovvio come noi la tiriamo giù di parecchio. Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
darko Inviato: 4 Luglio 2007 Segnala Share Inviato: 4 Luglio 2007 Curva, a prescindere dalla mancanza di denominatore comune tra la realtà americana e quella europea (centinaia di anni di storia sarebbe riduttivo personificarli con dei numeri), bisognerebbe, alquanto complesso, scorporare quanto il ritmo italiano incida sulla produttività, rapporti costi lavorativi/benefici totali e rapportare quanto viene fuori rispetto ad una nazione europea. Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
curvadong Inviato: 4 Luglio 2007 Autore Segnala Share Inviato: 4 Luglio 2007 Sì ora l'attenzione era sul divario di ore/lavoro e conseguentemente sul pil, tra USA e Italia, ho idea che sia tale e tanto perchè noi abbassiamo la media europea di molto.Per la produttività, la nostra è già come dato secco la più bassa d'Europa e questo indicatore è già sufficiente a determinare da solo un sacco di cose.Sai, la 'storia' di un paese in un mercato globale non conta nulla, se io voglio competere come paese con quei mercati nel contesto universale che è diventato il mondo io DEVO rapportarmi ai numeri degli altri.Questo fanno di mestiere i ministri dell'economia di tutto il pianeta.Ifattori culturali in questo caso nn possono entrare in gioco, se non nel determinare una via 'personale' ad un traguqrdo che è però lo stesso per tutti e non è un elogio del sistema quanto la sua presa d'atto. Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
Messaggi raccomandati
Crea un account o accedi per lasciare un commento
Devi essere un utente registrato per poter lasciare un commento
Crea un account
Iscriviti per un nuovo account nella nostra comunità. È facile!
Registra un nuovo accountAccedi Subito
Sei già registrato? Accedi da qui.
Accedi Adesso