curvadong Inviato: 31 Marzo 2007 Segnala Share Inviato: 31 Marzo 2007 (modificato) http://www.radicali.it/view.php?id=90844 Parità, il test di Londra Meno soldi ai maschi • da Corriere della Sera on line del 27 marzo 2007 di Paola De Carolis Mancano pochi giorni e l'attesa, per i dipendenti del settore pubblico britannico, è snervante. A una settimana di distanza l'uno dall'altro entrano in vigore due provvedimenti sulla parità di stipendi tra uomini e donne che potrebbero avere serie ripercussioni sulla busta paga, soprattutto maschile. «Togliere agli uomini per dare alle donne», hanno titolato alcuni giornali: non a torto. La prima norma, effettiva dal 31 marzo, riguarda gli enti governativi locali, e quindi comuni, ospedali, scuole: la seconda, che avrà valore dal 6 aprile, tocca invece tutte le organizzazioni pubbliche, dai ministeri, ai musei, alla Bbc. Si tratta, a sentire Jenny Watson, presidente della Commissione per la pari opportunità, «del più grande cambiamento sui salari degli ultimi 40 anni». Parla con orgoglio: è stata la Commissione a innescare quella che è una totale revisione del modo in cui uomini e donne vengono retribuiti. «La gente crede che la differenza di stipendio sia dovuta interamente alla discriminazione, ma non è il solo fattore — ha precisato Watson —. Le difficoltà, ad esempio, che incontrano le donne nel conciliare lavoro e famiglia possono limitare la loro carriera, soprattutto se manca la necessaria flessibilità. Anche questa è discriminazione. Bisogna inoltre considerare i diversi incarichi che ricoprono uomini e donne. In generale, le dieci occupazioni più pagate sono a dominio maschile. Al polo opposto ci sono quasi esclusivamente donne. Tradizionalmente le professioni «femminili» — infermiera, maestra, assistente sociale — vengono pagate meno. Non è giusto. Non valgono di meno». Quello che la Commissione auspica con l'introduzione dei due provvedimenti è, in pratica, un cambiamento radicale dell'ambiente lavorativo e dell'inserimento della donna. Un grattacapo per centinaia di datori di lavoro che si trovano ora a dover redistribuire gli stipendi. Il costo non è indifferente: sarebbero un milione e mezzo le donne che, contrariamente alla legge, avrebbero percepito meno di colleghi maschi. Secondo il Financial Times, se tutte decidessero di far causa il contribuente si troverebbe di fronte a una bolletta da 15 miliardi di euro. Questo solo per quanto riguarda il governo locale. In alcuni comuni dal 31 marzo in poi le buste paga maschili potrebbero accusare una diminuzione pari al 40%. Come, ad esempio, nel consiglio municipale di Birmingham: «È una norma sulla parità che sembrerà ben poco equa a diversi dipendenti — ha detto un portavoce —. Nella maggior parte dei casi sarà possibile bloccare gli stipendi maschili per due o tre anni, tutelarli, aumentare quelli delle donne che risultano sottopagate. Ma i risultati sono tutti da vedere». Difficoltà che secondo la commissione i datori di lavoro avrebbero potuto evitare correndo tempestivamente ai ripari. «Questo è un provvedimento — ha sottolineato Watson — deciso assieme ai sindacati nel 1997. Sono passati dieci anni. Sarebbero dovuti bastare». questa è la dimensione di una legge progressista e riformista.Nel ritardo con cui pure viene attuata, c'è tutto il divario che si separa da quei mondi.Il sindacato accetta questa norma 'concertandola' nel 1997!!! questa è una proposta italiana che tocca in modo serio la questione http://www.radicali.it/view.php?id=90843 Meno tasse sul lavoro femminile, senza perdere gettito • da Il Sole 24 Ore del 27 marzo 2007, pag. 1 di Alberto Alesina e Andrea Ichino Lavorare fuori casa è più difficile per le donne che per gli uomini per motivi biologici e culturali. Gli uomini non possono sostituirsi alle donne nella gravidanza e, piaccia o no, data l'attuale divisione dei ruoli nella famiglia e nella società, sono ancora le donne a occuparsi maggiormente dei figli. Inoltre, le donne sono spesso discriminate nel mercato del lavoro perché hanno, a parità di competenze, salari e probabilità di promozione inferiori. Per queste ragioni, la partecipazione femminile alla forza lavoro è più bassa di quella maschile in quasi tutti i Paesi del mondo ed è soggetta a interruzioni durante l'età fertile con conseguenze negative per la carriera. Nella famiglia tipica l'uomo lavora "comunque" , ossia variazioni di salario netto e/o di condizioni di lavoro non cambiano molto la decisione dell'uomo di far parte della forza lavoro. Invece, le stesse variazioni influenzano in modo marcato là decisione delle donne. Una montagna di evidenza empirica, ottenuta da studi su molti Paesi Ocse, dimostra che l'offerta di lavoro maschile è molto meno sensibile al livello del salario al netto delle imposte rispetto all'offerta di lavoro femminile. Queste considerazioni sono particolarmente importanti per l'Italia, dove il tasso di occupazione delle donne (46,3%) è tra i più bassi nell'Ocse, mentre l'Agenda di Lisbona prescrive che debba salire almeno al 60% entro il 2010, senza peraltro dirci come raggiungere tale obiettivo. Ieri il Governatore Mario Draghi ha indicato proprio nel lavoro femminile una risorsa che una società moderna non può permettersi di sprecare e che la politica economica deve saper recuperare al mondo produttivo. Ecco una proposta che offre una soluzione al tempo stesso equa ed efficiente: ridurre le tasse sul reddito da lavoro per le donne e aumentarle per gli uomini. Questa soluzione è efficiente perché è possibile realizzarla riducendo l'aliquota delle donne più di quanto si debba aumentare quella degli uomini lasciando il gettito fiscale invariato. Quindi è una misura che riduce la pressione fiscale media a parità di gettito. Questo "miracolo" è possibile perché, come si è detto, gli uomini hanno un'offerta di lavoro rigida. Se fossero tassati di più, ridurrebbero poco la loro offerta di lavoro e il gettito fiscale generato dal loro reddito aumenterebbe in modo considerevole anche a seguito di un incremento minimo dell'aliquota. Viceversa proprio perché l'offerta di lavoro femminile è più elastica, una riduzione anche forte dell'aliquota fiscale applicata alle donne non diminuirebbe molto il gettito fiscale prodotto dalle loro retribuzioni perché crescerebbe l'occupazione femminile e quindi la base imponibile su cui quella minore aliquota si applicherebbe. Questo è l'abc della scienza delle finanze: uno dei principi cardine della teoria della tassazione ottimale è che sia efficiente tassare di più i beni la cui offerta è rigida e di meno quelli la cui offerta è elastica. Secondo i nostri calcoli, esposti nel saggio Gender based taxation (disponibile sul sito http://www2.dse.unibo.it/ichino/#papinprog) queste semplici considerazioni di efficienza fiscale suggerirebbero un'aliquota media per le donne in Italia non superiore al 67% di quella degli uomini, ma il livello ottimale è quasi cèrtamente ancora più basso. Questa proposta aumenta anche l'equità del sistema perché contribuisce a compensare le donne per i costi biologici e sociali di cui si è detto. Proprio per questo motivo, riteniamo che la tassazione differenziata tra uomini e donne non contravvenga al divieto di discriminazione di genere, poiché in realtà è volta proprio a restringere il divario tra i sessi: non c'è ipocrisia peggiore che imporre l'uguaglianza di trattamento tra diseguali. Ci sono ulteriori vantaggi: la tassazione differenziata dei sessi consente di avvicinarsi agli obiettivi di Lisbona in modo molto meno distorsivo di quanto accadrebbe con le proposte di cui invece si sente abitualmente parlare, quali le "quote rosa", gli obblighi di aspettativa sperimentati in Svezia per i neopadri o le affirmative action finalizzate a favorire le donne al momento dell'assunzione e delle promozioni. Tasse differenziate raggiungerebbero gli stessi obiettivi mediante incentivi, non per mezzo di imposizioni quantitative e vincoli amministrativi difficili da applicare e far rispettare. Grazie alla tassazione differenziata, l'assunzione di donne costerebbe meno ai datori di lavoro pur aumentando il salario al netto delle imposte per le lavoratrici. Ecco un modo semplice con cui Prodi potrebbe rafforzare l'abbassamento del cuneo fiscale promesso in campagna elettorale. Inoltre, per i datori di lavoro diventerebbe più costoso discriminare una donna nelle assunzioni e nelle promozioni, un obiettivo questo che dovrebbe attrarre l'attenzione del ministero per le Pari opportunità. Come per l'inquinamento il modo migliore di abbatterlo è tassarlo, così per la discriminazione il modo migliore per combatterla è renderla più costosa per chi la pratica. L'unica obiezione alla nostra proposta potrebbe venire da chi ritiene che le donne oggi lavorino "troppo" e si occupino poco dei figli. Si noti che se questo fosse vero allora tutte le proposte e iniziative per facilitare l'ingresso e la permanenza delle donne nella forza lavoro dovrebbero essere abbandonate, inclusa l'Agenda di Lisbona. Non spetta a noi discutere le convinzioni personali e religiose che possono giustificare una tale opinione, ma l'evidenza empirica che conosciamo non indica l'esistenza di gravi ripercussioni negative sui figli causate da un aumento della partecipazione al lavoro delle madri. Al contrario, chi ha esaminato tale questione ha trovato riflessi positivi sui risultati scolastici delle fìglie femmine. Si dirà che le donne non lavorano in Italia per la mancanza di asili nido. A prescindere dal fatto che, data la bassa natalità nel nostro Paese, sembra difficile che la scarsità di asili nido possa spiegare il record del basso tasso di occupazione femminile italiano, l'aumento del reddito familiare ottenuto, appunto, con minori aliquote complessive e più occupazione femminile creerà la possibilità di sostenere il ricorso ad asili nido (o babysitter) da parte di madri che attualmente sono costrette a restare a casa perché altrimenti guadagnerebbero troppo poco per finanziare la cura dei figli. Infine, la proposta contribuirebbe a dare alle donne maggiore potere contrattuale nella famiglia e quindi le aiuterebbe a ottenere dai loro mariti un maggior contributo in casa, soprattutto per la cura dei figli, probabilmente a beneficio dei figli stessi che vedrebbero entrambi i genitori in modo molto più equilibrato di quanto attualmente accada. Si noti che anche gli uomini (almeno quelli sposati) trarrebbero vantaggio dall'aumento del reddito netto familiare generato dal fatto che la tassa della moglie cala più di quanto salga quella del marito. È difficile pensare a un altro intervento di politica economica che offra tanti vantaggi (tra cui alcune misure promesse, prima del voto, dall'attuale coalizione di governo e in prima persona dal presidente Prodi) e che sia facile da introdurre e amministrare senza effetti collaterali negativi. Perché non prenderlo in considerazione nella prossima Finanziaria? Se poi si riuscisse a controllare davvero la spesa pubblica allora si potrebbero diminuire le aliquote per le donne senza aumentare quelle per gli uomini. Ma questo è un altro discorso. Modificato 31 Marzo 2007 da curvadong Link al commento Condividi su altri siti More sharing options...
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