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l'occhio non vede ma lo stomaco duole.....


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È ormai abbastanza risaputo che la frutta venduta nei supermercati o nelle frutterie, bella, colorata e invitante quasi sempre non proviene dal Paese in cui si compra ma dall’altro emisfero del mondo. E il sapore? Spesso quello è un optional! È lo scotto che il consumatore deve pagare se vuole avere le ciliegie a Natale (provenienti dal Sud America!). Perché il sapore ne risente? Più volte è stato spiegato dai nutrizionisti che la frutta sarebbe meglio consumarla di stagione proprio per evitare che vengano raccolte acerbe per permettere lunghi viaggi in celle frigorifere, tempi di imballaggio nelle industrie, trasporti ai punti vendita, ecc.

 

E che dire poi del sapore di tutto il resto che mangiamo? A quanti è capitato di comperare un pollo, cucinarlo come sempre e ritrovarlo semidisossato in pentola a fine cottura? Oppure osservare con l’acquolina in bocca una bella e grande bistecca sulla padella che mentre cuoce comincia inesorabilmente a ridursi della metà, rilasciando nel frattempo un liquido che sembra “acqua” (ma chissà cosa sarà)? Questo deve essersi chiesto Felicity Lawrence, inviata del quotidiano The Guardian, autrice del libro Non c’è sull’etichetta. Quello che mangiamo senza saperlo, edito da Einaudi. Racconta che tornando a Londra nel 1991 dopo due anni trascorsi a Peshawar in Pakistan si ritrovò in una sorta di Paese delle Meraviglie. Andando a fare la spesa in un supermercato rivide un mondo al quale da tempo non era più abituata: l’abbondanza era ovunque. Banconi stracolmi di ogni bendidio, tutto perfetto e in ordine, perfezione che si ripercuoteva anche nella frutta, tutta uguale per grandezza e colore. Ma sentiva una strana sensazione, come se mancasse qualcosa. E di colpo capì cos’era: mancavano gli odori. In Pakistan le strade dei mercati erano un’orgia di odori mentre nel lustro supermercato londinese tutto era bello, invitante, ma solo per la vista.

È quindi cominciata la ricerca della giornalista per capire cosa c’è dietro quello che mangiamo. E non è stata una bella scoperta.

 

Prendiamo l’esempio della frutta: ci siamo mai domandati come mai le mele che acquistiamo sembrano quelle di Biancaneve? Tutte perfette, lisce, della stessa colorazione? Ebbene, esistono dei veri e propri parametri dettati dai supermercati che stabiliscono come un frutto debba essere. E per “esaminare” le mele da immettere sul mercato esistono dei macchinari studiati ad hoc che costano centinaia di migliaia di euro. Uno di questi è il Greefa Intelligent Quality Sorter, costruito da una società di imballaggio olandese. Funziona così: viene stabilito a monte che una certa varietà di mele deve avere ad esempio un colore del 15-17 per cento rosso su verde. L’apparecchio fotografa fino a settanta immagini a colori per ciascuna mela che passa su un nastro trasportatore per verificarne la colorazione non uniforme e classificarla in base alle dimensioni. L’apparecchio è in grado di rilevare anomalie della grandezza anche di un solo millimetro quadrato. Quindi una mela con un rapporto rosso su verde del 18 o del 14 per cento viene scartata automaticamente.

 

Oppure prendiamo l’esempio dei fagiolini. In Kenya la Lawrence ha avuto modo di osservare come i piccoli proprietari terrieri classificavano i fagiolini destinati all’esportazione in Gran Bretagna: con un’asticella misuravano gli ortaggi che dovevano rispondere ai requisiti richiesti dai supermercati, ossia 95 millimetri di lunghezza per 5-7,5 millimetri di diametro. E il resto scartato (circa il 35 per cento) andava come mangime per il bestiame.

Tutto questo per soddisfare le richieste dei supermercati che ormai, almeno nel mercato britannico, secondo la Lawrence dettano legge sugli agricoltori costringendoli ad accettare prezzi di acquisto sempre più bassi che non riescono a coprire le spese di produzione.

 

Fin qui si potrebbe obiettare che stiamo parlando di un’aberrante deviazione dettata dal consumismo sfrenato: il ricco Occidente che superate le necessità di approvvigionamento del cibo, ormai sazio guarda alle misure di un fagiolino o all’aspetto di una mela mentre l’altra parte del mondo lotta per procurarsi una ciotola di riso o un sorso d’acqua.

Sicuramente è in parte vero ma purtroppo non è solo questo. Dietro alle scelte di questi “colossi” dell’alimentare ci sono fior di miliardi di guadagni che li portano ad agire non proprio in maniera esemplare soprattutto se parliamo della salute dei consumatori. Quasi sempre le confezioni vendute sui banconi con tanto di messaggi riguardanti genuinità e freschezza non corrispondono al vero.

Tanto per fare un esempio. Le insalate, tagliate e lavate, pronte per l’uso sono diventate un acquisto abituale per chiunque voglia risparmiare tempo. E si è convinti di andare sul sicuro: è verdura cruda, non condita, tutt’al più proprio per star tranquillo l’iperigienista può lavarla ulteriormente. Ma come si dice: “Mai fidarsi delle apparenze!”. Infatti andando più a fondo sul come vengono preparate le confezioni, si scoprono cose interessanti.

 

L’insalata raccolta viene portata alle sale d’imballaggio il giorno stesso, oppure entro i due giorni successivi se proviene dall’estero (sì perché abbiamo tralasciato di dire che, come per tutto il resto, anche l’insalata non cresce tutto l’anno ma solo l’estate). A questo punto viene selezionata, tagliata, lavata in acqua clorurata, asciugata e infine imbustata in confezioni di plastica in atmosfera modificata o Map. Avete notato niente di strano? Tipo acqua clorurata e atmosfera modificata? Che significano questi due termini? Il primo sta ad indicare che le foglie vengono lavate in una soluzione disinfettante composta di acqua e cloro dove la percentuale minima di quest’ultimo si aggira sui 50 milligrammi per litro, valore venti volte superiore a quello presente nell’acqua di una piscina. Questi lavaggi lasciano sull’insalata dei residui di composti clorurati e per questo non sono ammessi nelle preparazioni biologiche. Scientificamente è stato appurato che alcuni di questi composti sono cancerogeni.

 

Passiamo ora all’atmosfera modificata o Map. Questo metodo permette di aumentare del 50 per cento la conservabilità del prodotto. In pratica nel momento del confezionamento la quantità di ossigeno passa dal 21 al 3 per cento, mentre l’anidride carbonica aumenta in corrispondenza. Il trattamento serve a rallentare il deterioramento e lo scolorimento dell’insalata, che può apparire fresca di giornata fino a 10 giorni dalla raccolta. Dagli Stati Uniti arrivano lattughe che durano fino ad un mese (che siano biotech?).

 

Ovviamente a risentirne sono le proprietà nutritive. Proprio degli italiani, un’équipe di ricercatori dell’Istituto nazionale per la nutrizione di Roma, hanno condotto un esperimento su questo. È stata data da mangiare della lattuga appena colta a un gruppo di volontari. Ad un altro gruppo invece hanno dato della lattuga proveniente dalla stessa fonte ma confezionata dopo tre giorni in atmosfera modificata. Poi i ricercatori hanno fatto le analisi del sangue ai due gruppi e hanno notato che il primo gruppo aveva acquisito le sostanze nutritive antiossidanti tipiche dell’insalata mentre il secondo no. Ripetendo l’esperimento anche con insalata non trattata con atmosfera modificata ma comunque mangiata a distanza di qualche giorno si ottenevano gli stessi risultati. L’unica differenza era che la verdura aveva ovviamente un aspetto meno “fresco” di quella trattata.

E tralasciamo di parlare dei trattamenti che vengono dati alle piante per evitare che le loro foglie vengano rovinate dai parassiti. Normalmente alla fine del ciclo di crescita, un cespo di lattuga ha ricevuto 11-12 dosi di pesticidi, oltre a diverse applicazioni di fertilizzanti.

 

Nel suo libro, Felicity Lawrence indaga anche sul mondo della carne. Ed ecco che pensare di aver superato il limite con l’epidemia della Bse e dei polli alla diossina risulta una pura illusione. La giornalista, in incognito, ha passato un periodo lavorativo in uno dei maggiori stabilimenti di pollami della Gran Bretagna. Era stato un ispettore d’igiene a chiederle di condurre una inchiesta perché sospettava che le norme fissate dalla legge non fossero rispettate negli stabilimenti. In Gran Bretagna risulta che metà del pollame venduto nei supermercati (gli inglesi consumano 820 milioni di polli l’anno) è contaminato dal campylobacter, un batterio che provoca una grave intossicazione alimentare. Probabilmente il batterio si propaga nel momento della spennatura dei volatili. Negli stabilimenti le grandi vasche di scottatura contengono acqua a 52 °C, marrone e sporca perché cambiata una sola volta al giorno, nella quale i polli sono immersi al ritmo di 180 al minuto per “scottarne” la penne e permettere alla spennatrice automatica di staccarle più facilmente. La temperatura è perfetta per lo sviluppo di batteri come la salmonella. Inoltre le macchine spennatrici, con le loro dita di gomma esercitano una forte pressione sulle carcasse provocando l’espulsione del materiale fecale sulla linea di produzione. Basta quindi che un solo volatile sia infetto per contaminarne diversi altri.

 

In Gran Bretagna sono molto consumati i cibi preparati e il pollo è alla base di gran parte di questi piatti, come ad esempio le polpette. Proprio riguardo le polpette la Lawrence ha scoperto che di carne di questo volatile ce n’è ben poca in quanto la composizione è prevalentemente fatta di pelle di pollo. Normalmente per renderle gustose è necessario inserire un 15 per cento di pelle, ma produttori disonesti non esitano a metterne una percentuale molto più alta aggiungendo anche una poltiglia proteica (ottenuta dalla pressatura di carcasse contro una griglia fitta come una bustina da tè) riamalgamata con polifosfati e gomme. Aggiungendo anche altri additivi e acqua che non costa nulla ma fa lievitare il peso. Ovviamente di tutto questo non c’è traccia in etichetta. A proposito di acqua l’industria dichiara che la sua aggiunta nelle carni di pollo è indispensabile perché ne previene la disidratazione. Ma come avviene l’operazione? I Paesi Bassi (e qui li ritroviamo dopo il macchinario fotografa-frutta) sono specializzati in questo processo. Comprano a bassissimo costo dal Brasile o dalla Thailandia polli salati e congelati. Una volta arrivati in Olanda li scongelano e gli inniettano una soluzione di additivi attraverso decine di aghi oppure, tramite il processo cosiddetto di “tumbling”, vengono rigirati in una specie di betoniera fino a che non assorbono l’acqua. Dopodiché i polli vengono ricongelati e rivenduti ad altri produttori per successive lavorazioni. In alcuni casi si è riscontrato una percentuale di acqua pari al 30 per cento.

 

Ma come può un consumatore difendersi da questi metodi, purtroppo spesso legali perché previsti dalla legge? L’etichetta è ormai un diritto acquisito ma il fatto è che quasi mai si riesce a decifrarla e comunque non è possibile rintracciare tutta la filiera. Felicity Lawrence ha provato a trovare una risposta a tutto questo adottando un comportamento più consapevole: acquista la maggior parte di prodotti organici non al supermercato ma attraverso un programma di vendite dirette tra agricoltore e consumatore con consegna settimanale (il che permette anche di dare maggior reddito al coltivatore); quando acquista verdura e frutta chiede come viene prodotta e sceglie solo quelle di stagione; evita i prodotti eccessivamente “perfetti” perché probabilmente saranno stati trattati con sostanze chimiche o avranno superato le selezioni di bellezza; acquista carne anziché nei supermercati (meno costosa ma proveniente da allevamenti industriali) in macellerie che conosce, e così via. Forse la soluzione è proprio questa: il consumatore deve imparare ad acquistare consapevolmente, non farsi condizionare dalle pubblicità in televisione o accettare senza riserve quel che gli viene propinato dai negozi.

 

I risultati sicuramente arriverebbero, come dimostra la moratoria europea degli Ogm decisa a causa della diffidenza del consumatore verso queste “innovazioni” biotech tanto osannate dalle multinazionali proprietarie dei brevetti ma sulle quali ancora gli scienziati sono discordi circa le ripercussioni per la salute umana e l’ambiente.

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