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Uno come tanti


Tista

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Un saluto a tutti,perdonate se il mio esordio non è dei più gaudenti ma è quel che mi detta l'animo e che soprattutto mi ha portato a registrarmi nel vostro forum.

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Quanti anni della mia vita ho dedicato al mio dolore! Troppi.

Ho scritto pagine su pagine, l’argomento quasi sempre lo stesso: i miei capelli, il dolore che mi procura perderli, la devastazione dell’anima che consegue al fatto che io, senza capelli, non esisto.

Un andamento ciclico, continuo nella sua discontinuità, intervallato da momenti di inaudita bellezza, di emozioni intense, di polmoni pieni di armonia e gioia; da quei pulpiti, dall’altezza sommitale a cui sono arrivato, cadere è stato più doloroso, al punto che non avrei voluto mai salire così in alto.

Oggi, a distanza di sette anni da quel 1998 in cui Romina mi ha lasciato e la perdita dei capelli si è cristallizzata, come un insetto divenuto fossile nell’ambra, nell’abbandono di una bella donna, sono ancora qui a scrivere del mio avvilimento che sfiora la morte, le soffia vicino il suo fiato caldo e teme, e forse aspira, di svegliarla.

Si ripetono i soprusi del dolore, si annidano durante la settimana dietro ai sorrisi che sfuggono al controllo; ho fissato al giovedì il giorno della deflagrazione. A volte, quando la lucidità mi consente di essere un po’ più accorto, assumo il farmaco già il giorno prima, persuaso che il dolore che mi attende potrà così essere mitigato da mezza pastiglietta bianca.

Poi giunge il giovedì, mi lavo i capelli, ne raccolgo batuffoli densi arrovigliati nel gorgo del lavabo, così tanti che ne colgo il peso tra le dita. Durano quasi un’ora le operazioni: sciacquo, shampoo, risciacquo, crema, risciacquo e asciugatura. Tra uno sciacquo e l’altro mi guardo allo specchio, non voglio arrivare al termine definitivo delle operazioni con la sorpresa di non avere più capelli in testa.

Controllo, evitando la luce, troppo cruda e sincera la sua verità. Non sono completamente glabro e ciò sembra bastare.

Inizio l’asciugatura, prima quelli dietro e poi quei pochissimi che rimangono sulla linea frontale. Cerco di cotonare più possibile, in modo tale da “tirar giù” laddove c’è abbondanza e coprire le zone glabre.

Ogni volta però è più difficile, da ottobre non riesco più a raggiungere un risultato accettabile, la caduta si è fatto molto copiosa, forse come mai prima d’ora. Anche lo specchio della mia camera, quello che dopo un primo consulto in bagno, rappresentava la mia fittizia panacea poiché così lontano dal punto in cui mi trovavo da mascherare anche i difetti più evidenti, non ne può più di mentire; ora la verità riverbera su di lui, non ho più scampo, sono costretto a guardare lo scempio e a non trovar pace.

Oramai sono davvero pochi, si possono contare sulle dita, non esagero dicendo questo. Ciò che però più di tutto mi atterrisce è che la caduta è destinata a proseguire, che anche quei pochi reduci hanno un percorso segnato, che la linea frontale tra poche settimane sarà completamente vuota: sono realistico, non sto cercando di vittimizzarmi. Davvero penso che tra giorni, neanche più mesi, non avrò più un pelo sulla linea frontale.

Sono disperato.

Poi mi capita di vedere nuovi sentieri sulla mia testa. Zone dapprima ridanciane, empie di anagen e poco catagen, temo che si stiano diradando.

Eppure un trapianto io l’ho fatto. La malattia, e non mi riferisco all’alopecia, si era fatta particolarmente pressante; l’ansia stava prendendo il sopravvento, la lucidità dei sensi mi stava abbandonando. Quando ho eseguito l’intervento confidavo nel medico, nell’arte dell’impianto che, a detta di notizie che oggi riconosco come tendenziose, si stava fortemente sviluppando. Ho speso cinque milioni di lire, i miei risparmi e parte di quelli dei miei genitori. Con quei soldi ho solamente comprato una tregua, una pausa dal dolore nella quale la speranza alimentava il sogno di vedermi come prima, o quasi.

Sono passati quattro anni dal giorno dell’operazione. Oggi, sulla mia testa, non ci sono i risultati sperati, solamente dei filamenti così radi da non formare un punto in una foto.

Ho confidato troppo nella chirurgia. Ma non è stata la sola direzione verso cui mi sono mosso. Ho iniziato un ciclo di terapia, durato quattro anni. Ho cominciato ad assumere farmaci, su prescrizione ovvio. Mi pareva di star meglio. Il pensiero, così ossessionatamente rivolto ai miei capelli, veniva dirottato verso altri canali, o almeno questo era l’intento dello psicoterapeuta. Oggi però constato il fallimento di quella terapia: pensare “ad altro” mi ha portato a temere la mia immagine, ad averne paura come se si trattasse di quella di un mostro uscito dalle tenebre. Mi lavo i denti con lo sguardo basso, uno specchio della mia camera, davanti al quale sono costretto a passare ogni giorno è stato coperto da un poster insulso; ho smesso di prendere il sole d’estate poiché mi pare di esser più luccicante di un lampione al neon; la corsa, quella che un tempo amavo tanto, l’ho evitata quando si è associata ad essa la mia immagine mentre corro coi capelli all’indietro. Ogni aspetto della mia vita è stato così condizionato. Eppure si tratta solamente di un’alopecia che colpisce la linea frontale, e basta.

La chierica per esempio non ne è stata attaccata.

Ma è la morte quella che vedo ogni volta che mi lavo i capelli.

Vorrei trovare una soluzione a tutto questo. Mi sento però così impotente e stupido. Non riesco a tollerare questa mia infermità mentale. Come posso pensare che nei capelli risieda la vita, che nella loro caduta io veda l’annichilimento della mia persona, che niente, assolutamente niente abbia più senso. Ho letto dei rimedi che la chirurgia OGGI offre, e delle parrucche e dei rinfoltimenti che sostituiscono gli interventi chirurgici. Tutto questo, per quanto ancora mi alletti, non rappresenta il modo attraverso cui intenderei risolvere il problema. vorrei invece che la mia psiche accettasse il fatto che posso essere io anche senza i capelli, che valgo comunque, che sono importante comunque, che posso piacere comunque.

Ed invece, al momento, non riesco ad allontanare da me il pensiero che pelato non avrò più donne, che non piacerò più, che non sarò più in grado di affascinare con l’aspetto. Mi sento anche un ingrato, rispetto a molti che hanno problemi ben più intensi dei miei; chi mi conosce sa che ho sempre avuto donne di estrema bellezza, assai ambite e chiacchierate per la loro avvenenza. Tuttora sto uscendo con una ragazza che fa dell’aspetto fisico la propria miglior qualità.

Ma la sensazione che predomina è che io sia un fortunato, un ragazzo che non si merita niente di quello che l’amore gli ha regalato, che comunque la fortuna ha il tempo contato e che tutto, come i miei capelli, sia destinato a venire meno; aspetto quindi la morte sapendo che può soggiungere da un momento all’altro e che la gioia è breve come la vita di una farfalla, ed esile e delicati sono i filamenti a cui è ancorata che non vi è secondo a cui io possa confidarla.

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