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Le contraddizioni del Centro-Sinistra


Messaggi raccomandati

Luca Ricolfi (docente di Analisi dei dati socioeconomici univ Torino,elettore di sinistra)

 

La perversione per cui un mercato del lavoro più flessibile e con più occupati viene chiamato precarietà

Numeri ideologici

 

Roma. Quando cominciò il dibattito sulla falsificazione e l’utilizzo politico della statistica, alcune voci isolate proposero un interessante rimedio: l’individuazione di un certo numero di indicatori condivisi per il confronto politico. Escamotage che avrebbe salvaguardato l’opinione pubblica dalla noiosa sensazione di assistere a imbroglionesche guerre di cifre, condotte con la stessa goffaggine propagandistica da attaccanti e difensori.

Lo scontro di questi giorni su lavoro, precarietà e unità di lavoro standard è un esempio eloquente. Due settimane fa l’Istat diffuse i dati su indebitamento e pil in cui risultava che nel 2005 l’occupazione aveva registrato un calo. Fatto che colpì molto, perché sembrava interrompere la consolidata tendenza alla crescita dell’occupazione che era stato il più stabile successo dell’economia italiana degli ultimi anni. In realtà il dato era relativo alle Ula, unità di lavoro standard (utilizzate in contabilità nazionale per omogeneizzare i confronti internazionali). Le Ula non calcolano i contratti di lavoro reali, ma procedono su uno schema che qui ipersemplifichiamo in questo modo: due contratti part-time fanno una Ula. Dunque se cresce il numero dei lavoratori part-time diminuisce il numero delle Ula. L’Istat spiegò con una nota – giudicata servile dagli osservatori antigovernativi – che le Ula non potevano essere utilizzate per calcolare l’andamento dell’occupazione. Ma ieri alla diffusione del bollettino della Banca d’Italia, che basa le sue elaborazioni su dati Istat, la questione Ula si è ripresentata e molti giornali hanno sostenuto la tesi dell’occupazione in calo.

 

Nel merito la questione è a suo modo semplice. Nel 2005 in agricoltura c’è stata una flessione di 110.000 unità di lavoro standard, nell’industria 100.000, compensate da un aumento di altre 100.000 unità circa tra costruzioni e servizi. Il comunicato Istat del primo marzo spiegava che le Ula “passano da circa 24.294.000 del 2004 a circa 24.192.000 del 2005 (–102.000 unità)”. Riguardo invece ai posti di lavoro effettivi, l’ultima rilevazione trimestrale sulle forze lavoro disponibile (20 dicembre) dice che “nel terzo trimestre 2005 il numero di occupati è risultato pari a 22.542.000 unità, manifestando un aumento su base annua dello 0,3 per cento (+57.000 unità)”.

 

Adesso bisogna aspettare i dati sul quarto trimestre, saranno diffusi martedì per avere il dato complessivo del 2005. Per il momento la differenza tra il conteggio in Ula e quello in persone occupate può essere spiegato da un insieme di questioni: è probabilmente determinato in parte da un problema tecnico-statistico riguardo alla regolarizzazione degli immigrati, in parte dalla cassa integrazione (cioè un fenomeno congiunturale) e in parte da una tendenza, dal fatto che in alcuni settori si ricorre di più ai contratti part-time.

 

Che cosa insegna questa storia? Semplicemente che l’introduzione della flessibilità – che in Italia comincia alla fine degli anni Novanta con il pacchetto di misure voluto da un eccellente ministro del lavoro, Tiziano Treu – comporta contemporaneamente crescita di occupazione e mutamento dei carichi personali di lavoro. Cioè l’effetto "35 ore" con altri mezzi: lavorare meno lavorare tutti, non per effetto di un atto impositivo, ma perché il confronto tra domanda e offerta arricchito da nuove soluzioni contrattuali mette il mercato del lavoro nelle condizioni di crescere.

 

Ma nella campagna di questi giorni costruita sul declinismo prudente (siamo nei guai, ma resta una via d’uscita!), l’invocazione alla flessibilità che era stata stimolata dal sistema industriale e sostenuta dai grandi giornali, adesso diventa rammarico per le condizioni di precarietà delle fasce sociali sottoposte ai nuovi contratti. Insomma volevamo la flessibilità, la chiamiamo precarietà. Anche qui c’è molta esagerazione. Nel complesso sul totale dei lavoratori, i contratti a tempo indeterminato sono la stragrande maggioranza (63,4 per cento), quelli a termine sono il 10,8 per cento (il resto sono lavoratori autonomi). Naturalmente le percentuali si riequilibrano quando ci si riferisce ai contratti effettuati nell’ultimo anno, ai giovani e ai giovani occupati nell’ultimo anno, i quali quasi nel 50 per cento dei casi si sono visti proporre negli ultimi dodici mesi un contratto a termine. Ma perché non dovrebbe essere così? Quale difetto di entusiasmo dovrebbe spingerci a vent’anni a rifiutare un contratto a tempo? In Francia si protesta contro la possibilità per i giovani sotto i ventisei anni di essere licenziati entro due anni dall’assunzione. Il rischio non è la precarietà a vent’anni, ma che l’eccesso di tutela, la pigrizia, e la paura si facciano davvero declino.

 

altro contributo da sinistra per la non agevole riflessione del Brasisauro.

Modificato da curvadong
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i limti dell italia sono questi:ci si perde in un narcisismo estetizzante nel parlare di dottrine economiche,storia politica e chi piu ne ha piu ne mette.

Il fatto è uno solo:la felissibilità è indispensabile ma non va attuata alla maniera italiana:se io lavoratore non ti servo piu ,hai la libertà di licenziarmi ma mi devi dare un sussidio di poco inferiore allo stipendio e non certo per poki mesi.

D altro canto la sinistra estema deve modernizzars smettendola di garantire ad ltranza chi un lavoro già c el ha, deve pensare anche a color che un alvoro non c e l hanno.Flessibilità va bene ma occorrono regole ben precise.nessun licenziamento selvaggio.

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L’iniziativa di Veltroni e le mosse dell’Unione

Biagi, un simbolo da salvare

di

Dario Di Vico

 

La sinistra italiana non riesce a fare i conti con la figura di Marco Biagi. Ancora di recente in un talk show un esponente di primo piano dell' Unione, Alfonso Pecoraro Scanio, per sostenere l'ennesima e sterile polemica sull'argomento, ha esclamato che «Biagi era una persona per bene e una legge c o s ì non l'avrebbe mai fatta». E devono pensarla come lui tutti quelli che, a sinistra, per attaccarla la definiscono legge 30 o addirittura legge Maroni. Chapeau dunque a Walter Veltroni che al giurista ucciso dalle Br ha dedicato una strada della capitale e soprattutto ha avuto il coraggio di scrivere, in un articolo uscito ieri sulla Stampa, che quella di Biagi è la via giusta per favorire la crescita dell'occupazione. «La flessibilità ha contribuito a facilitare l'accesso di tanti xxxxx e ragazze al mondo del lavoro ». Più chiaro di così il sindaco di Roma non poteva essere.

Il messaggio è diretto a quanti dentro l'Unione—ma anche nei Ds — hanno fatto dell' abolizione della Biagi un obiettivo identitario, quasi che la cancellazione di quel provvedimento — e di quel nome indigesto — possa essere nei primi 100 giorni la dimostrazione del peso delle sinistre radicali dentro la coalizione uscita vincitrice dalle urne. Invece vale esattamente il contrario: il nome del professore socialista e cattolico è diventato un simbolo, accettare la sua legge è anche la riprova di un riformismo maturo che mette tra sé e la cultura che ha animato gli assassini di Biagi un solco incolmabile. Il gesto di Veltroni apre, dunque, una prospettiva nuova per le forze del centrosinistra, ricucire il Paese dandosi come bussola la ricerca delle soluzioni più efficaci, arrivando ad utilizzare spezzoni di provvedimenti decisi dal centrodestra.

Il governo Prodi vorrà migliorare la Biagi? Intenderà porsi l'obiettivo di difendere il lavoro debole? Si sforzerà di dotare l'Italia di un più moderno sistema di ammortizzatori sociali? È giusto e auspicabile che lo faccia. Il precariato può essere una condizione temporanea, non è razionale che si trasformi in quella che un riformista coraggioso come Pietro Ichino ha bollato come «la nuova apartheid». Ma le affermazioni di Veltroni fanno notizia perché nel centrosinistra non è ancora uscita allo scoperto un' impostazione che si proponga di costruire le condizioni dell'uguaglianza e non si limiti ad invocarle per decreto. L'imponibile di manodopera è una gloriosa parola d'ordine del sindacato degli anni 50, dei tempi di Giuseppe Di Vittorio, ma nell'epoca della delocalizzazione le strategie per accrescere le occasioni di lavoro (e per tutelarlo) richiedono sperimentazione e coraggio.

Un diritto del lavoro che garantisce l'inamovibilità degli insider e sposta tutto il rischio a carico degli outsider di sicuro oggi non aiuta e andrebbe ripensatoPer Prodi la disputa sulla Biagi è una piccola cartina di tornasole. Vale la pena ricordare come all'epoca del suo precedente governo fosse stata messa su una commissione incaricata di elaborare un progetto dell'Ulivo per l'ammodernamento del welfare. A presiederla fu chiamato uno dei più stimati collaboratori del Professore, l'economista bolognese Paolo Onofri. Il documento finale di quella commissione conteneva ricette coraggiose e spunti innovativi.

I massimi dirigenti confederali, e non solo quelli della Cgil, lo marchiarono sprezzantemente come «atti osceni in luogo pubblico ». E quel rapporto restò nei cassetti di Palazzo Chigi. Fortunatamente Onofri gode di buona salute e forse sarebbe felice di aggiornare quel documento di nove anni fa.

13 maggio 2006

 

ancora un bel pezzo sulla strada da percorrere e su cosa sia il sindacato in Italia.

Modificato da curvadong
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i limti dell italia sono questi:ci si perde in un narcisismo estetizzante nel parlare di dottrine economiche,storia politica e chi piu ne ha piu ne mette.

Il fatto è uno solo:la felissibilità è indispensabile ma non va attuata alla maniera italiana:se io lavoratore non ti servo piu ,hai la libertà di licenziarmi ma mi devi dare un sussidio di poco inferiore allo stipendio  e non certo per poki mesi.

D altro canto la sinistra estema deve modernizzars smettendola di garantire ad ltranza chi un lavoro già c el ha, deve pensare anche a color che un alvoro non c e l hanno.Flessibilità va bene ma occorrono regole ben precise.nessun licenziamento selvaggio.

 

 

 

Curavadong avevo letto una volta che tu avevi la fabrichetta....quindi è ovvio che difendi i tuoi interessi e il tuo orticello (cioè la precarietà di lavoratori).

sbagliato...difendo il tuo sacrosanto diritto di scrivere queste stronz.ate.

 

xxxxx nessuno vi obbliga ma se volete commentare quello che riporto dovete prima leggerlo nel merito e ogni tanto esprimere opinioni contestuali.Capisco ovviamente che dire cose generiche o sparare caz.zate sia più facile e veloce.

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Facendo un riassunto della discussione.

 

1)chi pensa di mantenere - difendere l’articolo 18 non capisce un cxxxx ed è un socialista reale, retrivo ed ideologico

 

2) chi a sinistra suggerisce di rivedere la disciplina è un socialdemocratico moderno ed illuminato

 

3) Curvadong ha la fabbrichetta-chetta-chetta :zorro: ^_^

 

 

:supersorriso:

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A parte le battute, è proprio la prospettiva che adotti che invalida la tua posizione. Tutte le persone che hai citato non capiscono cosa succede dentro una azienda, o meglio non lo hanno mai vissuto sulla propria pelle, il che fa differenza perché è quella la prospettiva corretta per capire “cosa succederebbe se”.

 

Tu pensi postando qualche articoletto sparso qua e là di guadagnare credito alla tua tesi, ma se vivessi la dimensione e la vita delle aziende medio grandi in Italia o che hanno comunque imprinting culturale italiano, come faccio io da consulente (e ho lavorato in tutte le più grandi aziende del mio settore ma proprio tutte e non certo con contratti che mi garantivano alcun “tempo indeterminato”) la logica che presiede alla gestione delle “risorse umane” (, e ti lascio questo definizione per la tua riflessione di quanto siano importanti le “persone ” che lavorano in una azienda) capiresti che in Italia l’unica ridotta possibilità per un dipendente con un minimo di talento di vedere la proprio azienda investire in formazione e sviluppo professionale è avere un contratto che impegni l’azienda nel lungo periodo senza ripensamenti ed incertezze, ovviamente dopo un periodo di osservazione dei comportamenti della persona nella fase di entrata

 

In Italia la cultura della formazione e dell’investire risorse per sviluppare la conoscenza, la competenza e l’abilità dei dipendenti è assente. I casi di crescita professionale sono dovuti a iniziativa individuale o per capacità di manovrare a proprio vantaggio le relazioni, e non si inquadrano (a meno di rare eccezioni, ma sempre provenienti da aziende di cultura anglosassone o americana) in un progetto di crescita “sostenuto” dall’azienda.

 

Che le aziende italiane spendano tradizionalmente poco in formazione è un dato statistico, che si accompagna al fatto che molti dirigenti italiani di grande aziende hanno la ferma convinzione che se investi molto in una persona, e quella persona impara, quella persona se ne andrà in cerca di migliori opportunità, o creerà gelosie e rivalità all’interno dell’azienda . Quindi, secondo loro, occorre tenere le persone ad un livello di conoscenza e sviluppo sufficiente per i compiti da assolvere, ma quando si fa un investimento di formazione, l’orientamento generale di un manager italiano è che quell’investimento non verrà ripagato e la conoscenza acquisita verrà portata fuori dall’azienda. Questo al di là delle cazzate che i top managers dicono sui giornali è quello che accade nel 2006AD: visto rivisto e verificato in tanti contesti e al massimo livello dalla prospettiva più cinica e chiara che è quella della funzione della Risorse Umane in una azienda.

 

A parole una funzione che ha l’obiettivo di creare il mondo ideale per il dipendente, nei fatto un servo fedele della strategia del top management una specie di tritapersone.

 

Non è un caso che moltissimi top managers di grandi aziende italiane. ,pur italiani abbiano fatto il proprio cursus honorum fuori dall’Italia, perché il cronico difetto del nostro paese è la miopia: voglio tutto subito, e non mi frega di investire in formazione per ritorni che posso avere in 3-4 anni . Sono proiettati tutti verso l’esterno (il business, il mercato etc etc) e pensano a quello che hanno dentro l’azienda, incluse le persone, come arnesi da impiegare.

 

Quando uno scenario di crescente flessibilità si innesta in una cultura storicamente portata a tutto questo, cosa succede? Succede che in Italia l’azienda prenderà sempre più gente per assolvere il compito specifico e non appena questa persona non serve più fuori. Ovviamente non rinuncerà a sviluppare qualche risorsa più dotata (come eccezione) ma il contratto psicologico (cosi come definito dalla teoria classica del comportamento organizzativo) che si stabilirà sarà meno impegnativo per entrambe le parti. Essendo disposta a dare meno, riceverà anche meno.

 

Questo sicuramente migliorerà il conto economico della singola azienda, che raggiungerà nel breve periodo una efficienza maggiore avendo una leva in più su cui manovrare.

 

Ma nel lungo periodo avremo una compenente sempre maggiore di persone poco preparate e poco motivate e le più capaci migreranno (già lo fanno verso altri lidi) dove la perdita della sicurezza di accompagna anche a maggiori opportunità.

 

A livello paese questo significa una sola cosa: declino.

 

La flessibilità non è affatto un problema “giuridico” ma un problema di mentalità del sistema e quando dico sistema dico anche le imprese che si devono levare la paura di investire nelle persone.

 

Le imprese e gli imprenditori nel contesto italiano non vogliono la flessibilità, vogliono il diritto di licenziare quando la persona “non serve” per raggiungere l’obiettivo, la considerano come una risorsa (umana, appunto) tale e quale come potrebbe essere un altro fattore produttivo.

 

Non scommettono sulla persona e non creano per quella persona le dovute opportunità. E allora la flessibilità diventa solo un mezzo per difendere un piccolo interesse di bottega e basta.

 

Il sistema non mette a disposizione dei talenti i mezzi per emergere, per rendere possibile le idee ritenute impossibili: difficile pensare a Bill Gates o Steve Jobs fare quello che hanno fatto da 0, non dico in Italia ma anche in Europa. Manca la cultura, i mezzi, l’accesso a opportunità educative di alto livello (solo 1 MBA fra i primi 100 nel rank di FT è in Italia).

 

Potrei citarti decine di esempi di violazione dei diritti elementari dei lavoratori che ho visto in contesti in cui la flessibilità è presente ma è assente completamente la cultura e il rispetto delle regole, anche di comportamento.

 

Da Presidenti di azienda grandissime (più di 4000 persone) che minacciano il licenziamento per chi consegna con un minuto di ritardo il resoconto quindicinale delle ore spese lavorate sul cliente (memo ufficiale mandato a TUTTI i dipendenti, che in media lavorano come delle bestie e se consegnano con un po’ di ritardo è per fare un buon lavoro per il cliente, mettendoci tutto l’impegno possibile. Se si consegna in ritardo l’impatto per l’azienda è praticamente 0, e il danno peggiore è per il dipendente che non si vede riconosciute le ore di straordinario lavorate).

 

Da Project Manager che usano l’arma del ricatto per ottenere che i sottoposti riportino poche o nessuna ora di straordinario lavorate, per fare bella figura con i conti (e fregare i PM che dimostrando senso di responsabilità, non fanno questi ricatti).

 

Da Project Manager (italiani all’estero!) che per forzare i sottoposti a lavorare anche nei weekend 12 ore al giorno (dopo averlo chiesto amichevolmente per diverse settimane e avendolo ottenuto) minacciano valutazioni negative, o potenziali conseguenze sulla posizione contrattuale delle persone se non accettano di farlo ancora con invito a giustificare “se non si continua lavora nel we e a dire PERCHE non si può lavorare”.

 

Se pensi che questi siano casi rari vuol dire che sei veramente chiuso nel tuo piccolo mondo,

 

Vai a spiegare al povero dipendente in Italia di fare una lunga causa per ottenere un risarcimento adeguato a minacce del genere se di dice no e se il prezzo può essere il licenziamento, con un sindacato meno incisivo Coi tempi della giustizia, i cavilli giuridici, etc. etc. In bocca al lupo.

 

Purtroppo questo è lo scenario.

Non c’è niente di moderno in questa flessibilità è semplicemente il Taylorismo del XX secolo rivisto e riproposto nel XXI secolo.

 

Quello che è vero è che nel nostro paese prima di cambiare l’articolo 18, devono cambiare 100 altre cose prima e innanzitutto la mentalità degli altri attori che partecipano o che hanno interessi a vedere questa flessibilità realizzata. La flessibilità come approdo di un sistema nuovo e non come il primo evento per generarlo.

 

Allo stato attuale, l’articolo 18 è uno stabilizzatore che riequilibra storture che provengono da lontano, e non è pensabile porvi mano prima che tali storture siano raddrizzate.

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.....magari avessi la fabbrichetta!!!!

 

comunque il riassunto è onestissimo nel senso di assolutamente coerente con il contenuto dei tuoi interventi precedenti. :) :)

 

detto questo e seppellite le battute che porterebbero la querelle ad un livello ozioso e strascicato ti invito pragmaticamente ad osservare il dibattito di questi giorni dentro alla sinistra .

 

Se 'controlli' le pagine del corriere, del 'sole', della 'stampa', perfino di repubblica dell'ultimo mese vedi che sono piene di editoriali sull'argomento diritto del lavoro e articolo 18.Ieri ben due in prima pagina sul corriere, uno di Ichino e uno dello stesso tono di Mieli anche se riferito a Napolitano, esaltato e rimpianto come migliorista di sinistra che ventanni fa, se assunto al vertice, avrebbe potuto traghettare i ds ben oltre il punto attuale.

 

Come saprai Mieli non è esattamente uomo di destra, come del resto nessuno della pletora di quelli che ti ho citato.Questo dibattito sulla necessità di riformare decisamente l'art. 18 con il sindacato esiste, ed è centrale rispetto alle sorti della legislatura nascente e non è mosso propriamente da ricchi imprenditori e da liberisti sciagurati.Prendere atto di questo senza ideologismi è già "un passo in avanti" come dice ...Ichino (!!) nell'editoriale di ieri, e non è cosa scontata come appare anche dagli interventi sul forum, che in questo senso si dimostra ancora una volta piuttosto rappresentativo dell'umore comune.

 

saluti, sanbek.

Modificato da curvadong
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A parte le battute, è proprio la prospettiva che adotti che invalida la tua posizione.  Tutte le persone che hai citato non capiscono cosa succede dentro una azienda, o meglio non lo hanno mai vissuto sulla propria pelle, il che fa differenza  perché è quella la prospettiva corretta per capire “cosa succederebbe se”.

 

Tu pensi postando qualche articoletto sparso qua e là  di guadagnare credito alla tua tesi, ma se vivessi la dimensione e la vita delle aziende medio grandi in Italia o che hanno comunque imprinting culturale italiano, come faccio io da consulente (e ho lavorato in tutte le più grandi aziende del mio settore ma proprio tutte  e non certo con contratti che mi garantivano alcun “tempo indeterminato”) la logica che presiede alla gestione delle “risorse umane” (, e ti lascio questo definizione per la tua riflessione di quanto siano importanti le “persone ” che lavorano in una azienda)  capiresti che in Italia l’unica ridotta possibilità per un dipendente con un minimo di talento di vedere la proprio azienda investire in formazione e sviluppo professionale è avere un contratto che impegni l’azienda nel lungo periodo senza ripensamenti ed incertezze, ovviamente dopo un periodo di osservazione dei comportamenti della persona nella fase di entrata

 

In Italia la cultura della formazione e dell’investire risorse per sviluppare la conoscenza, la competenza e l’abilità dei dipendenti è assente.  I casi di crescita professionale sono dovuti a iniziativa individuale o per capacità di manovrare a proprio vantaggio le relazioni, e non si inquadrano (a meno di rare eccezioni, ma sempre provenienti da aziende di cultura anglosassone o americana) in un progetto di crescita “sostenuto” dall’azienda.

 

Che le aziende italiane spendano tradizionalmente poco in formazione è un dato statistico, che si accompagna al fatto che molti dirigenti italiani di grande aziende hanno la ferma convinzione che se investi molto in una persona, e quella persona impara, quella persona se ne andrà in cerca di migliori opportunità, o creerà gelosie e rivalità all’interno dell’azienda . Quindi, secondo loro, occorre tenere le persone ad un livello di conoscenza e sviluppo sufficiente per i compiti da assolvere, ma quando si fa un investimento di formazione, l’orientamento generale di un manager italiano è che quell’investimento non verrà ripagato e la conoscenza acquisita verrà portata fuori dall’azienda.  Questo al di là delle cazzate che i top managers dicono sui giornali è quello che accade nel 2006AD: visto rivisto e verificato in tanti contesti e al massimo livello dalla prospettiva più cinica e chiara che è quella della funzione della Risorse Umane in una azienda.

 

A parole una funzione che ha l’obiettivo di creare il mondo ideale per il dipendente, nei fatto un servo fedele della strategia del top management una specie di tritapersone.

 

Non è un caso che moltissimi top managers di grandi aziende italiane. ,pur italiani abbiano fatto il proprio cursus honorum fuori dall’Italia, perché il cronico difetto del nostro paese è la miopia: voglio tutto subito, e non mi frega di investire in formazione per ritorni che posso avere in 3-4 anni . Sono proiettati tutti verso l’esterno (il business, il mercato etc etc) e pensano a quello che hanno dentro l’azienda, incluse le persone, come arnesi da impiegare.

 

Quando uno scenario di crescente flessibilità si innesta in una cultura storicamente portata a  tutto questo, cosa succede? Succede che in Italia l’azienda prenderà sempre più  gente per assolvere il compito specifico e non appena questa persona non serve più fuori.  Ovviamente non rinuncerà a sviluppare qualche risorsa più dotata (come eccezione) ma il contratto psicologico  (cosi come definito dalla teoria classica del comportamento organizzativo) che si stabilirà  sarà meno impegnativo per entrambe le parti. Essendo disposta a dare meno, riceverà anche meno.

 

Questo sicuramente migliorerà il conto economico della singola azienda, che raggiungerà nel breve periodo una efficienza maggiore avendo una leva in più su cui manovrare.

 

Ma nel lungo periodo avremo una compenente sempre maggiore di persone poco preparate e poco motivate e le più capaci migreranno (già lo fanno verso altri lidi) dove la perdita della sicurezza di accompagna anche a maggiori opportunità. 

 

A livello paese questo significa una sola cosa: declino.

 

La flessibilità non è affatto un problema “giuridico”  ma un problema di mentalità del sistema e quando dico sistema dico anche le imprese che si devono levare la paura di investire nelle persone.

 

Le imprese e gli imprenditori nel contesto italiano non vogliono la flessibilità, vogliono il diritto di licenziare quando la persona “non serve” per raggiungere l’obiettivo, la considerano come una risorsa (umana, appunto) tale e quale come potrebbe essere un altro fattore produttivo.

 

Non scommettono sulla persona e non creano per quella persona le dovute opportunità.  E allora la flessibilità diventa solo un mezzo per difendere un piccolo interesse di bottega e basta.

 

Il sistema non mette a disposizione dei talenti i mezzi per emergere, per rendere possibile le idee ritenute impossibili: difficile pensare a Bill Gates o Steve Jobs fare quello che hanno fatto da 0, non dico in Italia ma anche in Europa.  Manca la cultura, i mezzi, l’accesso a opportunità  educative di alto livello (solo 1 MBA fra i primi 100 nel rank di FT è in Italia).

 

Potrei citarti decine di esempi di violazione dei diritti elementari dei lavoratori che ho visto in contesti in cui la flessibilità è presente ma è assente completamente la cultura e il rispetto delle regole, anche di comportamento.

 

Da Presidenti di azienda grandissime (più di 4000 persone) che minacciano il licenziamento per chi consegna con un minuto di ritardo il resoconto  quindicinale delle ore spese lavorate sul cliente (memo ufficiale mandato a TUTTI  i dipendenti, che in media lavorano come delle bestie e se consegnano  con un po’ di ritardo è per fare un buon lavoro per il cliente, mettendoci tutto l’impegno possibile. Se si consegna in ritardo l’impatto per l’azienda è praticamente 0, e il danno peggiore è per il dipendente che non si vede riconosciute le ore di straordinario lavorate).

 

Da Project Manager che usano l’arma del ricatto per ottenere che i sottoposti riportino poche o nessuna ora di straordinario lavorate, per fare bella figura con i conti (e fregare i PM che dimostrando senso di responsabilità, non fanno questi ricatti).

 

Da Project Manager (italiani all’estero!) che per forzare i sottoposti a lavorare anche nei weekend 12 ore al giorno (dopo averlo chiesto amichevolmente per diverse settimane e avendolo ottenuto) minacciano valutazioni negative, o potenziali conseguenze sulla posizione contrattuale delle persone se  non accettano di farlo ancora con invito a giustificare “se non si continua  lavora nel we e a dire PERCHE non si può lavorare”.

 

Se pensi che questi siano casi rari vuol dire che sei veramente chiuso nel tuo piccolo mondo,

 

Vai a spiegare al povero dipendente in Italia di fare una lunga causa per ottenere un risarcimento adeguato a  minacce del genere se di dice no e se il prezzo può essere il licenziamento, con un sindacato meno incisivo  Coi tempi della giustizia, i cavilli giuridici, etc. etc. In bocca al lupo.

 

Purtroppo questo è lo scenario.

Non c’è niente di moderno in questa flessibilità è semplicemente il Taylorismo del XX secolo rivisto e riproposto nel XXI secolo.

 

Quello che è vero è che nel nostro paese prima di cambiare l’articolo 18, devono cambiare 100 altre cose prima e innanzitutto la mentalità degli altri attori che partecipano o che  hanno interessi a vedere questa flessibilità realizzata. La flessibilità come approdo di un sistema nuovo e non come il primo evento per generarlo.

 

Allo stato attuale, l’articolo 18 è uno stabilizzatore che riequilibra storture che provengono da lontano, e non è pensabile porvi mano prima che tali storture siano raddrizzate.

 

 

ti rispondo semplicemente così...ripetendoti in altro modo quello che ho ribadito fino alla noia (sicuramente la mia...).La posizione da me espressa non è assolutamente originale e nè particolare, ma è quella della sinistra riformista che in questi mesi e soprattutto giorni è possibile leggere su qualunque quotidiano nazionale.

 

se esperti di economia e docenti nelle facoltà d'Italia e non solo come Giavazzi, Boeri ed altri, giuslavoristi come Ichino e Tiraboschi, sociologi del lavoro come Ricolfi e cazz.ola, eminenti giornalisti come Mieli, esponenti prestigiosi del mondo di sinistra come Salvati e Veltroni (!!) sostengono la necessità di rivedere un impianto nato in condizioni troppo diverse da quelle attuali, ecco semplicemnete è utile che qualche dubbio sulla pausibilità dell'istanza posta tu te lo faccia venire.

 

quello che tu vedi da consulente ha sicuramente delle basi di verità, ma è il panorama globale che va traguardato...la realtà che osservi tu è la stessa che ho sott'occhio io ancora più da vicino seppur per strade diverse credimi e non vedo solo o tanto quello che vedi tu.Ma ripeto, se proiettiamo le nostre opinioni sul panorama nazionale dobbiamo osservare quantomeno l'analogo dividersi a sinistra tra 'conservatori' e 'riformisti'...dopodichè ogni opinione è legittima, salvo il dire che la posizione espressa si riduca ad un moto personale e curioso del sottoscritto.....

Modificato da curvadong
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Facendo un riassunto della discussione.

 

1)chi pensa di mantenere - difendere l’articolo 18 non capisce un cxxxx ed è un socialista reale, retrivo ed ideologico

 

2) chi a sinistra suggerisce di rivedere la disciplina è un socialdemocratico moderno ed illuminato

 

3) Curvadong ha la fabbrichetta-chetta-chetta  :zorro:   ^_^

:supersorriso:

 

comunque il riassunto è onestissimo nel senso di assolutamente coerente con il contenuto dei tuoi interventi precedenti. smile.gif smile.gif

 

il mio rifermento è a queste tue parole e nn all'ultmo tuo intervento.

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Cinque impegni per i cento giorni

di

Francesco Giavazzi

 

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Nella campagna elettorale del 2001 Silvio Berlusconi assunse molti impegni con gli elettori: meno tasse, strade, ponti, posti di lavoro e così via. Tutti li ricordiamo e prima di andare a votare ognuno di noi deciderà se e in che misura il suo governo ha mantenuto quelle promesse. Come hanno osservato sul Corriere Angelo Panebianco e Dario Di Vico, chiedere che chi mira a governare assuma qualche impegno preciso è importante per varie ragioni. I programmi elettorali pochi li leggono, e nessuno li ricorda: impegni puntuali rendono invece più facile agli elettori valutare coloro per i quali hanno votato. Ma legarsi le mani con qualche impegno preciso conviene anche a chi governerà perché lo rafforza nei confronti delle mille lobby che cercheranno di bloccare la sua azione.

Comincerò quindi ponendo cinque questioni specifiche: l'azione di un governo non potrà certo limitarsi a questi pochi punti, ma è un modo per cominciare.

1) Per migliorare la qualità delle nostre università, l'unico modo è metterle in concorrenza l'una con l'altra. Chi mette in cattedra delle «capre» solo perché amici del preside o del rettore deve sapere che rischia di restare senza studenti. Ma per arrivarci bisogna abolire il valore legale della laurea, come in Gran Bretagna, dove le università sono le migliori d'Europa. Il ministro Moratti si è sempre opposto. Chi ha il coraggio di impegnarsi a farlo?

2) Per introdurre un po' di concorrenza nelle professioni è necessario eliminare gli albi. Chi ha il coraggio di cominciare cancellando uno dei più inutili ma anche dei più difficili, l'albo dei giornalisti?

3) La concorrenza dipende dalle leggi, ma anche dalla qualità e dall'indipendenza delle persone nominate a presiedere le autorità, dall'Antitrust alla Banca d'Italia. Un anno fa l'Antitrust multò Telecom Italia per abuso di posizione dominante. Quella multa fu prontamente annullata dal Tribunale amministrativo del Lazio con una sentenza che entrò nel merito della sanzione anziché limitarsi a verificarne la correttezza formale come la legge vorrebbe. Trascorse qualche settimana e il presidente di quel Tribunale fu nominato a presiedere l'Autorità per le Comunicazioni. Romano Prodi ha illustrato un progetto coerente e condivisibile di riforma delle Autorità le quali, egli osserva correttamente, sono cadute preda dei grandi monopoli. Ma i tempi per realizzare quel progetto saranno lunghi. S'impegna intanto a iscrivere all'ordine del giorno del suo primo consiglio dei ministri un decreto di cinque righe che disponga la decadenza immediata dell'attuale Governatore della Banca d'Italia? A Berlusconi è ormai inutile chiederlo.

4) L'impegno a privatizzare è in tutti i programmi. Ma in questa legislatura, anziché privatizzare, si è ricostruita l'Iri, chiamando «privatizzazioni» il trasferimento delle azioni di Eni ed Enel dallo Stato alla Cassa Depositi e Prestiti, che è di proprietà dello Stato. Chi si impegna a disporre, nel primo consiglio dei ministri, lo scioglimento della Cassa, prevedendo che le azioni che essa possiede siano collocate in Borsa? Insisto sulle privatizzazioni perché chiunque vincerà le elezioni dovrà affrontare un'emergenza conti pubblici, sia per effetto dei più alti tassi di interesse, sia perché è probabile che già nel giugno prossimo la Commissione europea ci sanzioni per aver violato anche le regole del nuovo Patto di Stabilità.

Anni fa lo Stato regalò alla Puglia l'Acquedotto pugliese, il più grande d'Europa, chiedendo solo l'impegno a privatizzarlo. Né il governatore di centrodestra, Raffaele Fitto, né il suo successore di centrosinistra, Nichi Vendola, hanno venduto una sola azione, ma lo Stato, nonostante l'evidente violazione del contratto, fa finta di nulla. Chi si impegna a decurtare dai denari che lo Stato trasferisce alla Regione, non tutto insieme, basta un po' per anno, il valore dell'Acquedotto?

5) Per osservare un mercato del lavoro che funziona bene, dove i giovani trovano lavori veri, non il precariato, e c'è poca disoccupazione, non è necessario andare Oltreoceano e copiare l'«odioso liberismo americano». Basta studiare la Danimarca, il Paese che protegge chi perde il lavoro più di ogni altro al mondo, e ciononostante ha pochi disoccupati, dimostrazione che un mercato del lavoro efficiente non richiede necessariamente di essere brutali con chi non trova lavoro. La Danimarca c'è arrivata eliminando qualunque ostacolo ai licenziamenti, soprattutto togliendo di mezzo i giudici e il diritto di chi è licenziato ad appellarsi ad un tribunale. E così le imprese danesi, sapendo che sbagliare un'assunzione non è un dramma, assumono. Certo la Danimarca non è il paradiso: capita anche che qualche imprenditore cattivo licenzi un dipendente solo perché è iscritto al sindacato. Ma neppure questo è un dramma perché i sussidi di disoccupazione sono generosi e durano tre anni. Però si perdono immediatamente se l'Agenzia del lavoro trova un posto adeguato ed il disoccupato lo rifiuta. Chi si impegna ad adottare il modello danese?

 

26 novembre 2005

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Questo è Giavazzi nella sua sintesi migliore, il 5° punto grassettato riguarda la Danimarca e il suo modello di lavoro, esempio di quelle socialdemocrazie da te citate.Il pur costoso sistema di ammortizzatori sociali ivi vigenti (i sussidi triennali, quello è il problema dell'adattabilità in Italia.. per questioni di tetto di spesa) viene compensato necessariamente dall'eliminazione di ogni vincolo al licenziamento (c'è stato un bellissimo report sul tema proprio su "Report" della Gabanelli di domenica scorsa).Quindi una volta di più...quella è una socialdemocrazia moderna dove a fronte di garanzie, protezioni e riqualificazioni tutte a spese dello stato esistono condizioni di totale flessibilità e il datore di lavoro può licenziare con preavviso di giorni 3 e senza appellabilità giuridica.Questa è la realtà, caro Brasileiro.

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Flessibilità va bene costruita all’interno di una rete di garanzie sociali che permettano alle persone di avere una ottima probabilità di trovare lavoro velocemente se licenziati. Flessibilità va bene se all’interno di una politica complessiva di riforma del lavoro che non tocchi solo i contratti ma che anche favorisca gli investimenti in formazione, in ricerca . E’ il concetto di flexicurity  a cui si arriva per gradi e non toccando subito certe garanzie.  E’ un ruolo nuovo e diverso delle agenzie di collocamento (incredibilmente efficienti nel modello inglese!)  etc etc.

 

l'avevo detto....

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te lo ripeto senza enfasi...come facciamo a discutere seriamente così?!

 

avevi detto......circa l'inghilterra e poi hai subito chiosato dicendo che quel modello è improponibile da noi con la mia risposta conseguente!!!!Quei modelli, compreso la danimarca testè citata, prevedono una facilità di licenziamento che va dal grado di sensibile a totale.Quindi se vogliiamo fornire modelli di riferimento e dire apertamente 'mi piacerebbe che fossero adottati', o se vuoi adattati all'Italia, è necessario guardarli a 360°.

 

Nessun modello di nessuna socialdemocrazia prevede determinati ammortizzatori sociali e investimenti alla riqualificazione a fronte della rigidità del nostro mercato del lavoro.Le due cose non sono semplicemente possibili finanziariamente, e non lo sono per paesi che crescono più di noi e soprattutto hanno meno debito, figurati per l'Italia!!

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Curvadong,

il punto è che discutere seriamente di temi complessi con un mezzo asincrono è, al di là della migliore buona volontà, inefficiente. Io credo di essere stato chiarissimo nei miei distinguo, ma tu non li comprendi non certo per cattiva volontà, solo perchè questo sono cose che meritano un dibattito a voce.

 

Comunque (ancora una volta...) il concetto di flexicurity non è in contrasto con nessun pensiero socialdemocratico.

 

Alla base del pensiero socialdemocratico c'è la tutela dei membri della comunità (speice i piu deboli) attraverso un sistema di garanzie.

 

Se queste garanzie, per altre vie, arrivano a garantire un risultato uguale o migliore di quello dell'articolo 18, non c'è problema.

 

Il punto è che in Italia prima di arrivare a questa decisione, ripeto, a mio parere c'è molto da fare e misure volte ad assicurare maggiore flessibilità in uscita come punto di partenza inasprirebbero i problemi invece di risolverli. Sulla valenza magica di "un mercato con meno lacci" molti commentatori guardano con piu attenzione alla reazione degli imprenditori e poco a quella dei dipendenti e in questo credo che facciano un grande errore.

 

Un cambiamento che non è accettato, elaborato e fatto proprio non verà mai realizzatto (per cultura personale ti consiglio "managing speed of change , Daryl Conner, dove questo concetto è splendidamente spiegato con la nozione di change resilience)

 

Questa è la mia opinione diversa da quella di Veltroni, di Ichino, della tua.

 

Il resto a voce un giorno, se capiterà. :)

 

B.

Modificato da Brasileiro
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Curvadong,

il punto è che discutere seriamente di temi complessi con un mezzo asincrono è, al di là della migliore buona volontà, inefficiente.  Io credo di essere stato chiarissimo nei miei distinguo, ma tu non li comprendi non certo per cattiva volontà, solo perchè questo sono cose che meritano un dibattito a voce.

indubbiamente, ma non imputo al mezzo usato i problemi di poca chiarezza...si tratta solo di commentare nel merito le cose citate o dette... nei tuoi distinguo non hai preso atto che in nessuna delle socialdemocrazie, da te citate o non citate, ammortizzatori sociali e riqualificazioni professionali a carico dello stato coesistono con rigidità del mercato del lavoro analoghe alla nostra.La socialdemocrazia Danimarca è il paese dove 'il lavoro è protetto di più al mondo', perchè l'occupazione è al pari di Usa e Giappone, ma c'è un sussidio dopo il licenziamento di 3 anni e continui corsi di aggiornamento da seguire:eppurre qui si licenzia con preavviso di giorni 3 inappellabile giuridicamente.E' la patria del liberismo?O una frontiera verso la quale bisognerà incamminarsi anche in Italia?

 

Comunque (ancora una volta...) il concetto di flexicurity non è in contrasto con nessun pensiero socialdemocratico.

certo ma va integrato, nella tua concezione, con la maggiore facilità di licenziamento.Tale concetto ripeto viene usato e coniato per definire modelli di diritto del lavoro esistenti e oggettivi e nei quali il licenziamento agevole è una componente indispensabile allo stesso modello.

Alla base del pensiero socialdemocratico c'è la tutela dei  membri della comunità (speice i piu deboli) attraverso un sistema di garanzie.

Se queste garanzie, per altre vie, arrivano a garantire un risultato uguale o migliore di quello dell'articolo 18, non c'è problema.

ti ripeto... si tratta di confrontarsi con paesi socialdemocratici dove l'occupazione è alta e dove (o anche perchè..) c'è la possibilità di licenziare agevolmente.Fatti, dati, numeri.

 

Il punto è che in Italia prima di arrivare a questa decisione, ripeto, a mio parere c'è molto da fare e misure volte ad assicurare maggiore flessibilità in uscita  come punto di partenza inasprirebbero i problemi invece di risolverli.  Sulla valenza magica di "un mercato con meno lacci" molti commentatori guardano con piu attenzione alla reazione degli imprenditori e poco a quella dei dipendenti e in questo  credo che facciano un grande errore.

è un'opinione, ma tecnicamente i vari modelli di flexsecurity che tu citi osservano propedeucità e sinergia tra le varie componenti della tipologia posta in essere....non può esserci quel sistema se solo alcune delle parti funzionano e altre no.Non c'è oggettivamente flexsecurity se c'è rigidità in uscita, leggi burocrazia del licenziamento (..capisco la monotonia..)

 

Un cambiamento che non è accettato, elaborato e fatto proprio non verà mai realizzatto (per cultura personale ti consiglio "managing speed of change , Daryl Conner, dove questo concetto è splendidamente spiegato con la nozione di change resilience)

una forza politica seria non si comporta come un produttore di format televisivi da dare alle masse in ragione della loro accettabilità.La necessità data dalla globalizzazione e dalla congiuntura internazionale impone scelte nette e possibili, anzi questo configura una compagine governativa, proprio la capacità di

proporre senza demagogismi quanto onestamente opportuno anche se indigesto.

 

Rimane ancora il dubbio a proposito della citazione del libro se la tua sia una presa di posizione sostanziale o invece una valutazione della plausibilità momentanea di certi provvedimenti: soprattutto nel secondo caso trovo la cosa paradossale perchè è un dato oggettivo che guardandosi attorno noi abbiamo da recuperare terreno perduto rispetto a tutti i partner e concedere nel 2006 a questa Italia 'tempo' per fare riforme che altrove marciano a pieno già da 10 o 15 anni appare davvero impossibile.

 

Questa è la mia opinione diversa da quella di Veltroni, di Ichino, della tua.

è un'opinione che sicuramente contrasta in toto la linea della pur sempre ancora esigua sinistra riformista italiana, dopodichè collocati dove vuoi.

Il resto a voce un giorno, se capiterà.  :)

al tuo matrimonio, non s'era detto che facevo il testimone??!!!!! ^_^

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Romano Prodi ha sciolto la riserva e annunciato la squadra di governo: D'Alema (Esteri) e Rutelli (Beni Culturali) i vicepremier, Mastella alla Giustizia, Parisi alla Difesa, Di Pietro alle Infrastrutture. La Turco alla Sanità. Pecoraro all'Ambiente. Sei le donne nell'esecutivo.

 

Ahahah Mastella alla Giustizia, ma lui voleva la Difesa ahahahah!!! mo senti!

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